Grosso guaio nell’Artico: le emissioni di metano in inverno sono più di quanto si pensasse

CNR: risultati che potrebbero costringerci a rivedere i modelli climatici globali

[23 Dicembre 2015]

La quantità di metano (CH4) che durante il lungo e freddo inverno nell’Artico fuoriesce dal terreno ed entra nell’atmosfera terrestre è probabilmente molto più alta di quanto finora stimato dagli attuali modelli del ciclo del carbonio. A dirlo è uno studio  internazionale condotto da un team guidato dalla San Diego State University (SDSU) ed al quale hanno partecipato anche il nostro CNR, la NASA ed università statunitensi, finlandesi, britanniche e canadesi.

I ricercatori hanno infatti scoperto che almeno metà delle emissioni annuali di metano nell’Artico si verificano nei mesi freddi e che le tundre secche di montagna possono emettere più metano delle tundre umide. Questi  risultati, pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences, non solo mettono in discussione  le teorie precedenti, ma possono costringerci a rivedere i modelli climatici globali.

Come spiegano al  Jet Propulsion Laboratory della NASA, «Il metano è un potente gas serra che contribuisce al riscaldamento atmosferico, ed è circa 25 volte più potente per molecola del biossido di carbonio in un periodo di 100 anni. Il metano intrappolato nella tundra artica proviene principalmente dalla decomposizione microbica della sostanza organica nel suolo che si scioglie stagionalmente». Durante l’anno, questo metano filtra naturalmente dal terreno,  ma gli scienziati temono che il cambiamento climatico possa portare ad missioni  ancora più grandi dalla materia organica che è attualmente stabilizzata all’interno di uno strato di terreno profondo e ghiacciato, chiamato permafrost.

Uno dei leader del team di ricerca è Beniamino Gioli dell’Istituto di biometeorologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibimet-Cnr) che evidenzia: «Le conoscenze disponibili finora lasciavano credere che gli ecosistemi artici fossero emettitori di gas serra solo nella stagione calda, quando il permafrost riesce a scongelarsi in superficie e la sostanza organica viene decomposta, causando il rilascio di metano. Gli studi condotti a supporto di questa assunzione si concentravano però sui mesi estivi, trascurando quelli invernali e primaverili che rappresentano il 70-80% dell’anno nelle regioni artiche».

Uno degli autori dello studio, Walter Oechel della SDSU e dell’Open University, evidenzia che «Praticamente tutti i modelli climatici presumono che non ci siano per  nulla, o molto poche, emissioni di metano quando il terreno è ghiacciato. “Questo presupposto non è corretto. L’acqua intrappolata nel terreno non gela completamente anche al di sotto di 32 gradi Fahrenheit (0 gradi Celsius). Lo strato superiore del terreno, detto strato attivo, si scioglie in estate e ricongela in inverno, e quanto congela sperimenta una sorta di effetto sandwich. Quando le temperature sono proprio sotto i  32 gradi Fahrenheit – la cosiddetta “cortina zero” –  sopra e sotto  lo strato attivo comincia a congelare, mentre al centro rimane isolato. I microrganismi in questo strato intermedio scongelato continuano ad abbattere la materia organica ed emettono metano per molti mesi all’anno nel periodo freddo dell’Artico»

Ma quanto  metano viene emesso durante l’inverno artico? Per scoprirlo i ricercatori hanno tenuto sotto controllo 5 torri Eddy covariance (Ec) e utilizzato le piattaforme aeree della che hanno sorvolato le aree studiate in diversi momenti dell’anno. «Contrariamente a quanto si era ipotizzato finora, le emissioni nella stagione fredda dominano il budget annuale di CH4 nei siti – precisa Gioli – Il motivo della persistenza di emissioni biogeniche in inverno risiede nella cosiddetta zero curtain, una condizione fisica in cui strati di suolo a media profondità, confinati in basso dal permafrost ed in alto dagli strati superficiali di neve-ghiaccio, riescono a permanere a temperature prossime allo zero, mantenendo attivi i processi biologici anche con temperature dell’aria estremamente più basse».

Il campionamento al suolo è stato effettuato in Alaska, al di sopra del Circolo Polare Artico, per tenerle in funzione costantemente per tutto l’anno, poi, tra il giugno 2013 e il gennaio 2015 hanno registrato le emissioni di metano per due interi cicli di estate-autunno-inverno. Un compito arduo, che ha richiesto strumenti altamente specializzati, per poter operare con continuità e in modo autonomo nel freddo estremo e per mesi di fila. I ricercatori hanno sviluppato un Hanno sviluppato un sistema di de-icing che ha eliminato le distorsioni nella misurazione e che veniva o attivato solo quando necessario per mantenere gli strumenti funzionanti fino a meno 40 gradi Celsius. E’ coì che il team di ricerca ha scoperto che una parte importante delle emissioni di metano avviene durante la stagione fredda e quando le temperature arrivano intorno allo zero.

La principale autrice dello studio, Donatella Zona, che lavora sia per la SDSU che per l’università britannica di Sheffield, sottolinea che «Questo è estremamente rilevante per l’ecosistema dell’Artico, dato che il periodo zero curtain  dura da settembre fino alla fine di dicembre, quanto o più a lungo dell’intera stagione estiva. Questi risultati sono opposti a quelli assunti dai modelers, che prevedono che la maggior parte delle emissioni di metano si verificano durante i mesi estivi mentre il contributo del metano nella stagione fredda è quasi zero».

L’altra sorpresa è che durante le stagioni fredda le emissioni di metano sono più alte nei siti secchi di tundra montana che nelle zone umide, contraddicendo l’ennesima convinzione di lunga sul le emissioni di metano dell’Artico. Le tundre montane erano fino ad ora considerate un fattore trascurabile per le emissioni di metano, ma la Zona ha detto, « il congelamento della superficie inibisce l’ossidazione del metano, con conseguenti emissioni nette di metano durante l’autunno e l’inverno. Le piante agiscono come camini, facilitandone la fuga nell’atmosfera attraverso lo strato congelato. Le emissioni annuali più alte sono state osservate in un sito di montagna ai piedi del Brooks Range, dove i terreni caldi e un profondo strato attivo determinato alti tassi di produzione di metano».

Per completare lo studio al suolo, John Kimball eil suo team dell’università del Montana hanno utilizzato i sensori AMSR-E a bordo satellite Aqua della NASA per sviluppare mappe regionali di copertura delle acque superficiali, compresi tempi, portata e durata delle inondazioni stagionali nelle zone umide dell’Artico. «Siamo stati in grado di utilizzare i dati satellitari per dimostrare che le aree di tundra montane sembrano essere le più grandi fonti di  metano per gli strumenti al suolo, rappresentano oltre la metà di tutta la tundra in Alaska».

Infine, per verificare se il loro campionamento sito-specifico fosse rappresentativo delle emissioni di metano in tutto l’Artico, i ricercatori hanno confrontato i loro risultati con le misurazioni realizzate durante i sorvoli  aerei sulla regione da parte del Carbon in Arctic Reservoirs Vulnerability Experiment (CARVE).della NASA e ne è venuto fuori che combaciavano in grandissima parte. Róisín Commane dell’università di Harvard, che ha aiutato il team acquisire e analizzare i dati aerei, conferma. «Le misurazioni aeree di CARVE del metano atmosferico mostrano che ampie zone della tundra artica e della foresta boreale continuano ad emettere metano in atmosfera a tassi elevati, molto tempo dopo il terreno superficiale è gelato».

Oechel e Zona sottolineato l’importanza di avere buoni dati di riferimento sulle emissioni di metano per poter adeguare i modelli climatici, tenendo conto delle emissioni di metano nell’Artico durante la stagione fredda e del contributo in gas serra che viene dalla tundra secca e montana.

Secondo la Zona, «E’ arrivato il momento di collaborare più strettamente con modellisti climatici e assicurarci che queste osservazioni vengano utilizzate per migliorare le previsioni dei modelli e perfezionare la nostra previsione del bilancio globale del metano».

Per Oechel «E’ particolarmente importante avere modelli che ottengano la giusta emissione di metano,  perché questo gas è una delle principali cause del riscaldamento atmosferico.  Se non si hanno i meccanismi giusti, nel futuro non saremo in grado di fare previsioni basate sulle condizioni climatiche previste».

Il CNR spiega a sua volta che «I dati raccolti, che saranno assimilati in nuove parametrizzazioni delle emissioni di metano nei modelli climatici globali, contribuiranno al miglioramento delle strumentazioni e dei metodi atti a prevedere il ruolo degli ecosistemi nei processi climatici».  Gioli conclude: «Come è noto, una maggiore emissione di gas serra in atmosfera provoca un aumento della temperatura, che a sua volta rende degradabili frazioni di permafrost conservate nel suolo da lungo tempo, provocando un nuovo innalzamento delle emissioni. Se alcuni ecosistemi terrestri come le foreste oggi stanno mitigando le emissioni antropogeniche assorbendo carbonio a livello globale, altri ecosistemi come la tundra artica potranno rilasciare in atmosfera crescenti quantità di carbonio accumulate nei secoli, di fatto amplificando le emissioni globali, con conseguente accelerazione del cambiamento climatico».