Un’inaspettata chiacchierata sui giganti del mare: le megattere

Roberto Barsaglini intervista Véronique Perard

[28 Febbraio 2022]

I giganti del mare sono un argomento affascinante, specie per noi elbani che viviamo nel bel mezzo del Santuario dei Cetacei del Mediterraneo e con alcuni dei quali abbiamo ed abbiamo avuto incontri ravvicinati, siano essi da barche e gommoni o da navi di linea, e talvolta anche ravvicinatissimi, addirittura dalle banchine portuali di Portoferraio.

Alcuni giorni fa è stata in visita, qui all’Elba, presso un’amica, Véronique Perard, collaboratrice di un progetto di ricerca sulle balene megattere (dal greco méga=grandi e pterón=ali, in riferimento alle grandi pinne pettorali) che da più di vent’anni studia questi giganti marini in uno dei siti di riproduzione, presso la Nuova Caledonia, isola e “collettività francese d’oltremare”, situata nell’Oceano Pacifico sud-occidentale, ad est dell’Australia e a nord della Nuova Zelanda.

Parlando con lei durante una cena è stato inevitabile cadere sull’argomento e sono rimasto molto colpito nell’apprendere che l’ultima campagna di ricerca nel sito in cui opera, svoltasi nell’autunno scorso (2021) ha dato risultati inaspettati: il numero di balene osservate è stato uno dei più bassi mai registrati e al di sotto della metà delle osservazioni dell’anno precedente.

Ho pensato che fosse una buona occasione per intervistare Veronique sul suo lavoro.

Lei non è una scienziata, è approdata a questo lavoro per mezzo di un incontro occasionale, ma vent’anni di collaborazione ininterrotta le hanno sicuramente conferito un’esperienza e duna conoscenza invidiabile. Residente in Nuova Caledonia, skipper di lunga esperienza, appassionata di vela e di mare, tanti anni fa ha occasionalmente incontrato la responsabile di questo progetto: il risultato è stato il suo ingaggio come conduttrice dei mezzi e responsabile della logistica per le azioni inerenti alla ricerca.

 

 

D: come sei approdata a questo progetto?

All’epoca, circa vent’anni fa, abitavo già in Nuova Caledonia, e occasionalmente, ho incontrato alcuni responsabili del progetto, in occasione di una birra bevuta insieme: cercavano qualcuno che pilotasse l’imbarcazione durante le ricerche in mare, e il risultato, al principio del tutto inaspettato, è stato che mi sono trovata coinvolta in esso fino ad oggi.

Il mio ruolo nell’ ”Opération Cétacés” (https://operationcetaces.wordpress.com/) non è iniziato (e non è mai stato) come scientifico, è un ruolo di marinaio e di responsabile della logistica. La mia attività nell’équipe è il catering, la logistica e la conduzione dei natanti necessari all’attività.

Ma in vent’anni ho potuto acquisire una grande esperienza e la conoscenza del terreno di ricerca. Più che redigere documenti scientifici, perché non ne ho i titoli, ho partecipato però molto all’identificazione fotografica ad al lavoro a posteriore di raccolta e classificazione dei dati, la parte più complessa della ricerca, che domanda un grande impegno di tempo. Ho partecipato molto alla comparazione delle foto, alla classificazione dei luoghi, delle situazioni dove i dati sono stati raccolti e dei fascicoli che tengono insieme la grande mole dei dati.

D: la nuova Caledonia è uno dei siti di riproduzione delle megattere?

E’ un sito importante e grazie a questa associazione, c’è stato un lavoro eccezionale: 25 anni di dati. Per le megattere è uno dei dossier più importanti, perché il lavoro che è stato fatto (ben fatto!) viene da persone con molta competenza, riconosciute a livello locale, nel Pacifico, insieme agli scienziati che hanno creato un Consorzio tra Australia, Nuova Zelanda, Tonga, Polinesia Francese, le isole Cook e la Nuova Caledonia. Tutti coloro che fanno ricerche sulle megattere si riuniscono regolarmente -quando possono- tutti gli anni, per mettere in comune i risultati della ricerca.

D: chi è la responsabile del progetto?

Si chiama Claire Garrigue, ma purtroppo sta andando in pensione e per il momento non ci sono sostituti che la rimpiazzeranno. Ci sono dei giovani che contribuiscono al progetto, che hanno molto collaborato, ad esempio per fare la loro tesi di laurea o, comunque, per approfondire i loro studi, ma al momento hanno altri impegni e lavori e non hanno le disponibilità che abbiamo avuto noi nel sostenere questo progetto.

Claire è dottoressa di Oceanografia presso l’istituto di ricerca IRD (Institute of Research for Development – https://www.researchgate.net/profile/Claire-Garrigue ), istituto

governativo francese, e prendeva vacanze e congedi per seguire questo progetto, per poter approfondire la ricerca, che altrimenti non avrebbe potuto seguire con questa assiduità. I giovani che collaborano adesso non hanno i mezzi materiali per fare lo stesso, per fare questi sacrifici. E al momento non c’è nessuno disponibile per fare il lavoro sul campo.

D: che tipo di dati raccogliete quando fate le ricerche sul campo?

Ci sono più livelli sui quali si lavora: in primis le foto identificative, soprattutto sulla parte bassa della coda, che ha un particolare disegno rappresentante come un’ “impronta digitale” dell’individuo da identificare, e che si chiama “impronta caudale”. Questo è stato il primo lavoro che abbiamo cominciato quando il progetto è partito. Poi, per ampliare ed integrare questo lavoro di identificazione fotografica, è stata aggiunta un’identificazione genetica, attraverso il prelievo di piccole porzioni di pelle e di grasso, e poi ancora, un altro mezzo molto usato attualmente, complementare, è la ricerca sul canto delle balene, ovvero la registrazione del canto dei maschi (le femmine non cantano, emettono suoni con i loro piccoli ma non fanno canti veri e propri) che si fa con microfoni sotto l’acqua, gli idrofoni: si lavora molto sul potere del canto relativamente al successo riproduttivo.

Su queste basi, poco a poco, nel corso degli anni, abbiamo cercato di rispondere a certe domande: quanti piccoli possono avere le femmine? con quale frequenza? le femmine partoriscono un piccolo per volta, quanto passa tra una gestazione e l’altra?

Le megattere dell’emisfero Sud passano la più parte del loro tempo in Antartide e, durante l’inverno australe (quando per noi è estate), migrano nei mari tropicali per la riproduzione. Le femmine, appena dopo l’accoppiamento, ripartono subito per l’antartico, dove possono ricominciare a nutrirsi.

La gestazione dura un anno e tornano nel sito di riproduzione (in acque più calde), la stagione seguente per il parto (da notare che non siamo mai riusciti a fotografare o ad osservare un parto, sappiamo che avviene lì perche vediamo comparire i piccoli).

Il piccolo viene allattato e messo in grado di ripartire con la madre, a fine stagione, per il lungo viaggio verso il polo Sud, restando con lei per un altro anno per imparare a nutrirsi.

La madre lo riporterà nel luogo di nascita ancora l’anno dopo e lì lo abbandonerà al suo destino. Rimasto solo, osserverà tutto quel che accade e a fine stagione ripartirà con gli altri per l’Antartide. Dovrà aspettare tra quattro e sette anni per entrare nel gioco della riproduzione.

Lo stock di balene che si aveva dopo gli anni della caccia (fine del XIX^ e inizio del XX^ secolo) era divenuto molto basso e le megattere erano diventate specie in pericolo.

Con le nostre ricerche ci siamo resi conto che gli animali, in questi casi (in caso di pericolo per la specie), mostrano un potere riproduttivo molto più importante di quello che la loro biologia potrebbe far prevedere: poter avere una nuova gestazione subito dopo il parto, senza attendere l’anno successivo allo svezzamento del balenottero.

Questo si è scoperto da cinque anni: attraverso la genetica si sono potute verificare le relazioni tra madre, padre e figlio, ovvero la genetica ha reso possibile fare ricerche sulla maternità e sulla paternità.

La nuova Caledonia è un luogo che le balene frequentano molto, sono branchi che ritornano assiduamente nello stesso posto: circa il 25% di balene riviste, balene che hanno adesso una loro storia attraverso i dati che abbiamo raccolto negli anni, e per mezzo di queste identificazioni è stato possibile stabilire che certe balene potevano figliare tutti gli anni. Ciò è stato molto stupefacente.

Questo è il lavoro fatto negli ultimi anni, attraverso la genetica ed lo studio sugli ormoni: dalle analisi sui campioni di grasso, si può verificare se la femmina sia in gestazione e se sia capace di riprodursi più di quello che si potesse pensare. Anche per i maschi, i prelievi di grasso mostrano la carica di testosterone e se l’animale sia in piena effervescenza ormonale, se sia molto più “potente” rispetto ad altri maschi. Si può studiare la sua “firma” e la sua capacità, anche mettendole in relazione al suo canto.

All’inizio del progetto i dati si limitavano alle foto e alle biopsie. Ora, dopo 25 anni gli strumenti si sono ampliati e si possono mettere in relazione più dati, si può alzare l’asticella delle ricerche. E i dati sono a disposizione degli studenti delle università del mondo intero che, grazie al nostro lavoro, possono continuare ad affinare le ricerche.

D: spiegaci qualcosa in più sulla biologia di queste balene

Le femmine hanno un figlio per volta, non abbiamo mai osservato parti gemellari.

Non vivono in famiglie, non sono animali gregari: si ritrovano in gruppo solo per specifiche occasioni. Il maschio cerca la femmina per riprodursi in competizione con altri maschi, ma non si formano mai famiglie. Dopo che si è accoppiato con una femmina ne va a cercare un’altra. Non c’è un solo maschio dominante, ma è appurato che ci sono maschi più “attraenti”, che quindi si riproducono di più.

Durante la stessa stagione si possono reincontrare più volte i maschi, ma la femmina, subito dopo la fecondazione, riparte velocemente sulla sua rotta di migrazione verso l’antartico per tornare a nutrirsi e prendersi cura della sua gestazione, perché nei siti di riproduzione le balene non mangiano.

Quando invece la femmina ha il piccolo, resta per tutta la stagione sul sito di riproduzione, per farlo crescere in preparazione del viaggio di ritorno nei mari freddi. Nel caso particolare che la femmina sia ingravidata nella stessa stagione del parto (secondo quel comportamento di cui si parlava prima, che ancora non è del tutto chiaro, sul loro inaspettato potere riproduttivo) alcune femmine potrebbero essere addirittura capaci di mettere l’uovo fecondato “in riserva”, continuando a curare il piccolo appena avuto e nel caso che, per qualsiasi motivo, lo perdano (ad esempio per un attacco delle orche), potrebbero far ripartire lo sviluppo dell’embrione “latente”. E’ stato anche osservato che i maschi, in certi casi, seguono la femmina con il balenottero (che ha ormai 2/3 mesi), quando iniziano il ritorno, tentando fino all’ultimo l’accoppiamento.

Tutti i maschi, nel corso dello stesso anno e nello stesso sito, cantano la stessa “canzone d’amore”, ma ci siamo accorti che alcuni “evolvono” e cambiano totalmente la loro, un processo che abbiamo definito come “evoluzione” e “rivoluzione”. Al momento non sappiamo ancora se questo comportamento possa incidere in qualche modo sul loro successo riproduttivo: è in corso, in proposito, uno studio da parte di un laboratorio dell’Università di St. Andrews, in Scozia, ma è troppo presto per avere dei risultati. Le risposte potrebbero arrivare incrociando i dati sui canti con quelli dei “campioni” genetici.

Inoltre, attraverso le biopsie di grasso, negli ultimi tre anni, abbiamo anche collaborato ad un progetto di una università australiana che sta facendo ricerche su campioni provenienti da ogni parte del mondo, per evidenziare la presenza di agenti inquinanti nell’alimentazione delle balene e poter così indagare sulla qualità delle acque di tutti gli oceani.

D: l’ultima sessione di ricerca ha dato risultati al di sotto delle aspettative sul numero di esemplari presenti. Era la prima volta che ciò si verificava?

Negli anni a cavallo tra i due secoli (1992/2002) ci sono stati risultati “poveri”, ma il numero delle magattere era povero a livello globale, e ciò poteva avere una sua coerenza.

Poi il numero era andato aumentando anche oltre le aspettative, soprattutto negli ultimi cinque anni, facendo pensare proprio a quel “potere riproduttivo” di cui si parlava precedentemente.

Stiamo parlando di quello che succede nel nostro sito di ricerca, che, occorre ricordare, non è l’unico: ad esempio nella zona dell’Australia lo stock è molto più diffuso e numeroso. Il nostro sito, la Laguna Sud in Nuova Caledonia (Patrimonio Mondiale dell’Unesco), è però più delimitato ed è sempre nello stesso posto da un anno all’altro, permettendo quindi, nel periodo di ricerca, delle osservazioni più sistematiche. Qui, la creazione del “Parco Marino del Mare dei Coralli” ha molto contribuito a rendere le ricerche più efficaci. Ma le variabili possono essere talmente complicate da capire, è difficile capire quando altri fattori entrano in gioco.

Quando abbiamo visto aumentare il numero negli anni scorsi, abbiamo pensato che potesse dipendere da branchi provenienti proprio dall’Australia, che si trasferivano nella nostra zona semplicemente perché troppi animali si venivano a trovare nello stesso sito, o anche per rinfrescare e ricombinare la genetica della popolazione. Ma sono solo ipotesi.

Per ciò che concerne il basso numero della scorsa stagione non pensiamo che le balene siano scomparse, ciò non potrebbe essere avvenuto in un anno. L’anno prima avevamo identificato 115 balene, l’ultima stagione (2021) soltanto 52, meno della metà (ovviamente si parla di identificazioni, non del numero totale delle presenze). Verosimilmente si sono spostate in un altro sito, per ragioni a noi sconosciute, ma non abbiamo al momento alcuna certezza. La nostra équipe, che normalmente è di cinque persone, riesce a coprire solo quella che è la nostra zona di ricerca. Ci sono altre équipes che lavorano in Australia, in Nuova Zelanda, a Tonga. Ma l’oceano Pacifico è immenso e in gran parte scarsamente popolato e i punti di riproduzione sono tantissimi: non si riesce a mettere in opera una ricerca globale che permetta di avere un quadro complessivo delle dinamiche di questi animali. È solo su piccola scala che riusciamo a comparare i dati delle ricerche.

D: quante sono le megattere che trovate nel vostro sito di osservazione?
Possiamo solo tentare delle stime. Quello che posso dire è che quando è cominciato il progetto di ricerca nel nostro posto avevamo in “catalogo” 200 balene identificate. Oggi è arrivato a 1700.

In venti anni abbiamo identificato 1500 balene in più, ed è stato per noi un lavoro enorme. In Australia il continente è molto più vasto e ci sono tanti siti di riproduzione. Da parte nostra abbiamo conseguito dei risultati straordinari, ma rappresentiamo un piccolo progetto, con tutte le sue difficoltà: risorse umane, materiali…

Io, ad esempio, ho potuto consacrarmi interamente a questo progetto perché perché lavoravo in altri periodi dell’anno ed ero disponibile nei periodi di ricerca.

Ora, il fatto che la responsabile del progetto vada in pensione rischia di porre fine ad esso, ed anche alla possibilità di rispondere alla domanda sul perché l’ultima stagione abbia visto questa riduzione del numero di osservazioni.

D: potrebbe esserci una relazione con le eruzioni vulcaniche della zona, ad esempio con quella recente di Tonga?

Non sembra. Sono stata a Tonga nel periodo precedente l’eruzione e le balene c’erano ed erano attive. Il vulcano di Tonga ha eruttato posteriormente all’ultimo periodo di ricerca (in quel periodo le balene erano in antartico) ed inoltre è abbastanza distante dalla Nuova Caledonia perché possa avere delle influenze. Comunque l’attività vulcanica, in generale, non sembra riguardare le balene, perché in quest’area del Pacifico le eruzioni sono frequenti, anche in contemporanea alla presenza di esse.

D: come si svolgono le sessioni di ricerca?

Lavoriamo nel sito per circa due mesi.

Tutti i giorni, salvo che il meteo non lo permetta, usciamo in mare alle 7:00 del mattino, con uno Zodiac di sei metri e mezzo; ci rechiamo al largo nel posto che, durante gli anni, abbiamo riconosciuto come luogo privilegiato per la presenza delle balene e lavoriamo fino al pomeriggio.

Una persona da terra, da un punto di osservazione rialzato di circa 160 m. che permette un’ampia visuale anche di varie miglia nautiche, ci guida via radio nei punti dove rileva attività, ovvero scorge i “soffi” degli sfiatatoi, perché noi, dal mare, abbiamo una vista “corta”: al massimo possiamo arrivare ad un paio di nautici.

Verso le 15:00/16:00 rientriamo con il nostro “bottino” di dati (foto, biopsie, registrazioni, annotazioni) al piccolo villaggio che ci ospita e lì ci dividiamo i compiti: catalogare i dati, fare la manutenzione dell’imbarcazione, preparare il cibo per la cena e per l’escursione del giorno seguente. Ma tutti, oltre ai compiti specifici, collaborano dove serve.

Il mio compito è, ovviamente, soprattutto la manutenzione del gommone ed andare periodicamente ad acquistare quello che occorre, ma per quel che posso collaboro al resto.

In mare (soprattutto all’inizio del progetto, quando non avevamo ancora gli strumenti odierni) il mio compito è quello di “tradurre” dalla mappa i punti dove recarsi, ed anche cercare di indovinare i movimenti degli animali, ad esempio calcolando tempo di apnea e velocità e predicendo così quando e dove sarebbe avvenuta l’emersione, mentre chi mi stava accanto stava pronto a scattare la foto. Quasi sempre la balena emergeva giusto accanto! Ovviamente questo è possibile a condizione di stare attenti a non arrecare alcun disturbo. Si seguono, in genere, gruppi di otto/nove individui con in testa la femmina, e dietro i maschi che combattono aggressivamente tra loro per il privilegio di accoppiarsi.

Noi cerchiamo di rimanere da parte e di prevedere quel che accade. La femmina è la prima che sorte, segue il maschio più vicino e subito dopo lo sfidante principale, poi via via gli altri. Cerchiamo quindi di prelevare i campioni di tutti gli individui, possibilmente senza intervenire due volte sullo stesso esemplare.

D: sembra un’attività che richiede molta attenzione e dedizione

Assolutamente. Quando faccio questo lavoro sono totalmente concentrata e non penso a nient’altro, come del resto succede anche per gli altri.  È un lavoro di équipe che comporta molta attenzione, ognuno ha il suo ruolo, ma in modo armonico e coordinato con gli altri, per poter svolgere il lavoro con precisione e in sicurezza.

L’osservazione di animali selvaggi nel loro ambiente naturale è sempre alquanto  imprevedibile. Se c’è un maschio che sta cantando, tutta la giornata di dati potrebbe ruotare attorno a lui. Ma un altro maschio che non abbiamo notato potrebbe venire ad interferire e sostituirsi all’altro nella copula con la femmina, alterando così i dati sulla paternità. Dobbiamo quindi essere sempre pronti a ricontrollare la correttezza dei dati raccolti, senza dare niente per scontato.

Nel tempo si raccoglie esperienza ma questa non dà mai diritto alla certezza: è solo la base, occorre sempre essere pronti a rimettersi in discussione. Può capitare che quello che di diverso accade in un istante divenga più importante di tutta l’esperienza accumulata.

Questo è quello che cerco sempre di trasmettere ai giovani ricercatori con i quali entro in contatto. Quando ho cominciato avevo esperienza del mare, ma non ne avevo alcuna in merito a questa ricerca. Sono stata guidata è ciò mi ha permesso di poter svolgere un lavoro sempre più completo. Ma ho imparato come l’esperienza può anche tradire, se ci si affida alle usuali certezze.

D: come si compone l’équipe?

Il Team si compone di 7/8 persone ad ogni stagione. Insieme alla responsabile del progetto, Claire, e al suo compagno, che cura molto la parte tecnica degli strumenti e che però non è costantemente presente, io faccio parte del “nocciolo duro” da vent’anni.

Ci sono poi le persone che hanno messo a disposizione del progetto la piccola casa nel villaggio che è divenuta la nostra base operativa.

Poi c’è chi può vantare presenze ripetute, studenti che sono venuti anche per i loro progetti di studio, altri che hanno partecipato occasionalmente.

D: un’ultima cosa, il rapporto con il turismo, inevitabilmente attratto dalla presenza di questi animali. Quanto interferisce con le operazioni di ricerca scientifica?

Attualmente qui sono stati presi molti provvedimenti per proteggere gli animali, ma c’è comunque una grossa attività legata al turismo ed all’osservazione delle balene.

In Nuova Caledonia ci sono molti velisti e gran parte di questa attività viene svolta da catamarani a vela, ma anche alcuni gommoni ed alcuni semirigidi.

L’ interferenza delle imbarcazioni turistiche con la ricerca è inevitabile.

Prima ci trovavamo spesso in competizione sui gruppi di balene ed era facile che si arrivasse a disturbarle. Noi non riuscivamo a terminare le nostre ricerche perché sotto la pressione dei turisti il comportamento delle loro barche diventava sempre più invadente. Dovete immaginare che mentre siamo sul gommone possiamo arrivare ad avere attorno a noi anche una ventina di imbarcazioni e, ciascuna, con una ventina di turisti!

Ma, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo intrapreso molti rapporti di collaborazione con giovani skipper, che sono riusciti a cambiare completamente il loro modo di vedere.

La nuova generazione dimostra di avere molta più coscienza sul rispetto degli animali e di essere più disponibile a quella che viene definita la “citizen science”, la scienza collaborativa.

Sono disponibili a fornirci foto di esemplari, nel caso che noi non abbiamo potuto farle, perché ad esempio stavamo seguendo un altro gruppo. Ciò ci ha permesso di incrementare notevolmente il materiale a nostra disposizione e di avere informazioni supplementari.

Grazie!

di Roberto Barsaglini

Siti proposti:

 Association Opération Cétacés:  https://operationcetaces.wordpress.com/

Nouvelle-Calédonie : zoom sur le Grand Lagon Sud: https://escales.ponant.com/nouvelle-caledonie-grand-lagon-sud/