Sono petrolio e gas, non il carbone vegetale, la più grande minaccia per la foresta pluviale del Congo

Aurelie Shapiro (Fao): «Smettetela di incolpare le comunità povere per la deforestazione. L'esplorazione petrolifera potrebbe innescare una gigantesca bomba al carbonio»

[30 Agosto 2022]

Piccoli agricoltori e produttori di carbone vegetale vengono accusati di essere i colpevoli della deforestazione nel bacino del Congo. Ma Aurelie Shapiro, Chief Technical Advisor della Fao e  principale autrice di un prossimo rapporto della Fao sul tema, dice che «I piani per trivellare petrolio e gas sono una minaccia climatica molto più grande. Una corsa al petrolio rischia di spazzare via i benefici dalla promozione dell’agricoltura sostenibile e dell’utilizzo di energia rinnovabile».

A fine luglio, il governo della Repubblica democratica del Congo (RDC) ha bandito un’asta per 27 blocchi di petrolio e 3 gas, alcuni dei quali si sovrappongono a un complesso di torbiere tropicali, uno dei più grandi pozzi di carbonio del mondo. Le grandi major petrolifere come Total, Eni, Exxon Mobil, BP, Equinor e Shell non parteciperanno a un bando che le esporrebbe a un grosso danno di immagine, ma gli ambientalisti temono che compagnie più piccole, con meno controlli e standard operativi più bassi, potrebbero correre il rischio.

Le trivellazioni petrolifere, che devono ancora essere avviate nella regione, non rientrano nell’ambito dello studio della Fao ma, citando il lavoro del climatologo Simon Lewis e la campagna di Greenpeace Africa “Stop the development of new oil blocks in the DRC”, la Shapiro ha descritto la decisione del governo di Kinshasa come «Una gigantesca bomba al carbonio».

La Central African Forest Initiative (Cafi) che, con finanziamenti provenienti da 8 Paesi donatori,  sostiene 6 Paesi del bacino del Congo per preservare la foresta, raggiungere gli Obiettivi di sviluppo dell’Onu e ridurre la povertà, solleva pesanti interrogativi sulle priorità dei finanziamenti climatici nella regione. Infatti, nella  pagina web che illustra il suo lavoro nella RdC, la Cafi afferma che «La perdita di foreste è dovuta alla povertà, al bisogno locale di terra e prodotti forestali (agricoltura taglia e brucia su piccola scala e carbone) esacerbata dalla forte crescita della popolazione» e non menziona altre cause, come l’attività mineraria legale e illegale e l’estrazione di combustibili fossili.

Climate Home News fa notare che «Un accordo da 500 milioni di dollari firmato tra Cafi e RdC vieta le trivellazioni petrolifere solo se “incompatibili con gli obiettivi di conservazione nelle aree protette”. Non identifica il valore del carbonio delle torbiere come motivo per impedire le attività».

La produzione di carbone vegetale ha dominato la narrativa sulla deforestazione nella RdC perché la carbonella è utilizzata ovunque in un Paese dove, secondo la Banca mondiale, nel 2019 aveva accesso all’elettricità solo il 17% della popolazione. Il governo dice che il tasso è del 9% e sono le aree urbane in rapida espansione come Kinshasa a guidare un’enorme domanda di carbone vegetale. Ma per la Shapiro «E’ improbabile che sia uno dei principali fattori di perdita di foreste».

Ogni anno, dal 2016 al 2020, lo studio della SEPAL, un progetto dell’Open Foris team del Dipartimento foreste della Fao, commissionato da Cafi, ha esaminato  nel dettaglio le cause della deforestazione e del degrado forestale nel bacino del Congo. A partire dal 2015, i ricercatori hanno controllato le immagini satellitari ad alta risoluzione di oltre 12.000 aree campione nella regione. I risultati dovrebbero essere pubblicati in autunno, attualmente sono sottoposti a peer review. Ma la Shapiro anticipa su  Climate Home News che i ricercatori «Hanno scoperto che la deforestazione durante il periodo era molto più alta rispetto a prima del 2015, ma non è aumentata di anno in anno. Tutti dicono che la deforestazione [nel bacino del Congo] sta esplodendo. Non lo stiamo vedendo. Lo studio conferma che l’agricoltura su piccola scala rimane il fattore di deforestazione più diffuso nella regione. Identifica un importante degrado forestale, gran parte del quale è probabilmente causato dalla produzione di carbone. Ma i dati sono irregolari. Sebbene le immagini satellitari siano migliorate nell’identificazione delle piccole radure forestali, non sono in grado di determinare il motivo per cui gli alberi vengono abbattuti».

La Cafi ha rifiutato di commentare il nuovo studio Fao prima che sia pubblicato formalmente. Ma già nel 2018 lostudio “Congo Basin forest loss dominated by increasing smallholder clearing”, pubblicato su  Science Advances da un team di ricercatori dell’università del Maryland e della State University of New York, aveva stimato che nella RdC la produzione di carbone vegetale non supera il 10% della perdita di foreste. La Shapiro spiega ancora che «Senza accesso a motoseghe o macchinari pesanti, le persone stanno rosicchiando i margini della foresta. Non tagliano gli alberi più grandi, che immagazzinano più carbonio. E’ importante sottolineare che questo ha un impatto di breve durata sulla foresta rispetto ad attività industriali come l’estrazione mineraria e l’agricoltura su larga scala. Le tecniche di taglio e bruciatura vengono utilizzate dalle comunità per abbattere gli alberi vicino ai villaggi. Piantano e coltivano per 3 o 5 anni in un posto prima di lasciare la terra incolta, permettendo il ritorno della vegetazione selvatica. Gli alberi più giovani possono a loro volta essere abbattuti per produrre carbone. Il punto è smettere di incolpare le persone che non hanno alternative».

Il governo di Kinshasa sostiene che la RdC deve sfruttare il petrolio e il gas per stimolare la crescita economica e far uscire le persone dalla povertà. Ma il 22 agosto Greenpeace Africa, Rainforest Foundation UK, Réseau CREF, Dynamique POLE, Bureau de Veille et de Gouvernance des Ressources Naturelles, Appuis aux initiatives communautaires de conservation de l’Environnement et de Développement Durable, Mouvement des Jeunes pour la Protection de l’Environnement e Réseau des Éducateurs du Développement Durable <, hanno denunciato in un comunicato congiunto che «Tre settimane dopo l’asta di 30 blocchi di petrolio e gas nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), i difensori ambientali continuano a dover affrontare minacce dirette. Ad alimentare il fuoco alcune dichiarazioni di alcuni ministri del governo congolese. Gruppi della società civile locale e internazionale denunciano questi attacchi, chiedendo alle autorità di adottare una narrazione più tollerante e di adottare altre misure per proteggere i diritti dei difensori dell’ambiente».

Le ONG ricordano che «Ad aprile il governo della RdC ha approvato un’asta di 16 blocchi di petrolio, accendendo una polemica nazionale e internazionale. La decisione di includere un totale di 30 blocchi di petrolio e gas è stata presa una settimana prima dell’asta del 28-29 luglio, sovrapponendo torbiere e aree protette, tra cui il Parc National de Virunga, patrimonio mondiale dell’Unesco. Scienziati e ONG sia della RdC che dell’esterno hanno messo in guardia sugli impatti catastrofici dell’asta sui diritti locali e sul benessere delle comunità nella RdC, sulla biodiversità e sul clima globale. Rifiutano anche il petrolio e il gas come un rischio per la pace e lo sviluppo nel Paese. Da allora gli attivisti hanno ricevuto una raffica di minacce sui social media, tra cui l’accusa di tradimento e la promessa di “raggiungerli”, oltre a minacce di morte. Sono state registrate anche minacciose telefonate anonime».

A buttare benzina sul fuoco ci ha pensato il 30 luglio la vice-premier e ministra dell’ambiente, Eve Bazaiba, che ha accusato Greenpeace Africa di non essere né green né per la pace. Il 26 luglio, il ministro degli idrocarburi, Didier Budimbu, aveva definito la campagna di Greenpeace Africa un  «Sabotaggio degli sforzi del governo» e aveva sminuito la petizione di Greenpeace Africa e di altre ONG sia nazionali che internazionali. Nello stesso giorno in cui la Rdc bandiva l’asta per il petrolio e il gas, l’Assemblea generale dell’Onu adottava la risoluzione che riconosce il diritto umano a un ambiente pulito, salubre e sostenibile e 161 Stati membri hanno votato (senza astensioni o contrari) per affermare che «Gli Stati hanno l’obbligo di rispettare, proteggere e promuovere i diritti umani, anche in tutte le azioni intraprese per affrontare le sfide ambientali».

Le ONG avvertono il governo di Kinshaka  che «Non permetteremo a nessuno di portarci via la natura, l’aria e l’acqua pulite o un clima stabile. Nel 2021 , 227 difensori della terra e dell’ambiente sono stati assassinati in un solo anno, la cifra peggiore mai registrata. Nel giugno di quest’anno , nella foresta amazzonica, l’esperto indigeno brasiliano Bruno Pereira e il giornalista britannico Dom Phillips sono stati assassinati. La risoluzione deve essere adottata dalle autorità congolesi per garantire la libertà di parola e che nessuno di coloro che insorgono per l’ambiente cada».

Per questo i gruppi della società civile congolese hanno accolto favorevolmente la riformulazione del dibattito sulla deforestazione nella regione. Alphonse Valivambene, un leader comunitario della RDC orientale, ha detto a Climate Home che «Le povere comunità rurali sono state un facile bersaglio da incolpare per la cattiva gestione delle foreste del Paese. Hanno ricevuto a malapena qualche finanziamento per il clima. E’ necessario che la politica abbia un  approccio più “olistico”, che tenga conto della povertà in cui vivono le persone».

Da tempo la Rainforest Foundation sostiene che «I modelli che informavano i finanziamenti e le politiche per la riduzione delle emissioni dovute alla deforestazione nel bacino del Congo sono basati su presupposti semplicistici». E Joe Eisen, direttore esecutivo di  Rainforest Foundation UK denuncia che «Concentrarsi in maniera sproporzionata sull’agricoltura su piccola scala, che avviene principalmente su base rotazionale alla periferia dei villaggi, ha consentito alle minacce industriali di non venire controllate». Pochi giorni fa,  l’ONG ha lanciato l’allarme su un progetto di costruzione di strade che minaccia una foresta vergine di 200.000 ettari in Camerun, sostenendo che la strada non collegherà i villaggi esistenti e non contribuirà allo sviluppo locale.