Rischi di estinzioni di massa per i biomi nordamericani: stanno perdendo la loro capacità di recupero

I dati dei pollini fossili suggeriscono una vulnerabilità a un'estinzione di massa imminente

[26 Agosto 2020]

«La ridotta resilienza dei biomi delle piante in Nord America potrebbe essere il terreno per un tipo di estinzioni di massa non viste dal ritiro dei ghiacciai e dall’arrivo degli esseri umani circa 13.000 anni fa», A lanciare l’avvertimento è lo studio “Plant biomes demonstrate that landscape resilience today is the lowest it has been since end?Pleistocene megafaunal extinctions”, pubblicato su Global Change Biologia da un team della School of biological sciences del Georgia Institute of Technology.

Un allarme molto preoccupante che arriva dall’analisi di 14.189 campioni di polline fossile prelevati da 358 località in tutto il sub-continente nordamericano. I ricercatori statunitensi hanno utilizzato i dati dei campioni «per determinare la resilienza del territorio, compreso per quanto tempo sono esistiti ambienti specifici come foreste e praterie – un fattore noto come tempo di residenza – e quanto bene si siano ripresi f dopo eventi come gli incendi boschivi – un fattore chiamato recupero».

Gli autori dello studio, Yue Wang, Benjamin Shipley, Daniel Lauer, Roseann Pineau e Jenny McGuire, scrivono che «Il nostro lavoro indica che i territori oggi mostrano ancora una volta una bassa resilienza, facendo presagire potenziali estinzioni a venire. Le strategie di conservazione incentrate sul miglioramento della resilienza sia del territorio che dell’ecosistema, aumentando la connettività locale e mirando a regioni con elevata ricchezza e morfologie diverse, possono mitigare questi rischi di estinzione».

Il team del Georgia Institute of Technology  ritiene che la nuova ricerca, sostenuta dalla National Science Foundation, sia la prima a quantificare la residenza del bioma e il tempo di recupero per un periodo prolungato. Lo studio ha utilizzato i dati sui pollini di 5 tipi di foresta: foresta-tundra, conifere/latifoglie, foresta boreale, foresta decidua e foresta costiera; cinque tipi di biomi arbustivi/erbacei: vegetazione artica, deserto, vegetazione di montagna, praterie e vegetazione mediterranea;  due tipi di biomi non analoghi: un parco di abeti rossi e un parco misto.

Utilizzando i dati sui pollini del Neotoma Paleoecology Database, che contiene polline fossile e spore che sono onnipresenti nei sedimenti di laghi e nel fango. Raccolti attraverso il campionamento di carotaggi, i campioni rappresentano un’ampia varietà di taxa vegetali e coprono un periodo di tempo prolungato, sono stati studiati i 12 principali biomi vegetali del Nord America negli ultimi 20.000 anni e McGuire spiega che «Abbiamo scoperto che il ritiro dei ghiacciai nordamericani ha destabilizzato gli ecosistemi, facendo sì che grandi erbivori – inclusi mammut, cavalli e cammelli – lottassero per le scorte di cibo. Quella destabilizzazione, combinata all’arrivo degli esseri umani in Nord America, è stata un uno-due da KO che ha provocato l’estinzione di grandi mammiferi terrestri nel continente».

I ricercatori hanno scoperto che oggi quegli stessi territori stanno sperimentando una resilienza inferiore a qualsiasi altra vista dalla fine delle estinzioni della megafauna del Pleistocene. Wang conferma: «Oggi, vediamo una resilienza del territorio altrettanto bassa e vediamo un uno-due: gli esseri umani stanno espandendo la loro impronta e il clima che sta cambiando rapidamente. Anche se sappiamo che esistono strategie per mitigare alcuni di questi effetti, i nostri risultati rappresentano un terribile avvertimento sulla vulnerabilità all’estinzione dei sistemi naturali».

Studiando il mix di piante presente nei campioni di polline, i ricercatori hanno scoperto che «negli ultimi 20.000 anni, le foreste sono persistite più a lungo degli habitat delle praterie – in media 700 anni contro circa 360 anni, sebbene abbiano anche impiegato molto più tempo per ristabilirsi dopo essere state perturbate – in media 360 anni contro 260 anni». McGuire evidenzia che «Questi risultati sono stati in qualche modo sorprendenti. Ci aspettavamo che i biomi persistessero molto più a lungo, forse per migliaia di anni invece che per centinaia».

La ricerca ha anche scoperto che le foreste e le praterie scompaiono rapidamente quando le temperature cambiano rapidamente e che si riprendono più rapidamente se l’ecosistema contiene un’elevata biodiversità vegetale. Tuttavia non tutti i biomi si riprendono. Lo studio ha rilevato che «solo il 64% riacquista il proprio tipo di bioma originale attraverso un processo che può richiedere fino a tre secoli. I sistemi artici avevano meno probabilità di riprendersi».

I ricercatori fanno notare che «La resilienza del territorio, la capacità degli habitat di persistere o riprendersi rapidamente in risposta ai disturbi, ha contribuito a mantenere la biodiversità terrestre durante i periodi di cambiamenti climatici e ambientali. Visti i rapidi cambiamenti climatici e di uso del suolo odierni, Identificare il ritmo e le modalità delle transizioni territoriali e i driver della resilienza del territorio è fondamentale per mantenere i sistemi naturali e preservare la biodiversità. Tuttavia, poiché le perturbazioni sono difficili da quantificare e le transizioni dell’ecosistema sono rare, i territori resilienti sono difficili da riconoscere su scale temporali brevi».

Il team del Georgia Institute of Technology  ha scoperto che, contrariamente alla teoria ecologica prevalente, la ricchezza di polline, che indica la diversità delle specie, non era necessariamente correlata al tempo di residenza. La teoria ecologica suggerisce che la biodiversità aumenta la resilienza dell’ecosistema migliorando la “ridondanza funzionale”, consentendo a un sistema di mantenere la stabilità anche se una o più specie vengono perse. Però i ricercatori fanno notare che «La ricchezza delle specie non riflette necessariamente la ridondanza funzionale e, di conseguenza, potrebbe non essere correlata con la stabilità dell’ecosistema».

Wang  conclude con una nota di speranza: «Sebbene gli effetti del cambiamento climatico e gli impatti sull’ambiente umano non siano di buon auspicio per il futuro dei biomi vegetali nordamericani, ci sono modi per affrontarli. Sappiamo che esistono strategie per mitigare alcuni di questi effetti, come dare la priorità alle regioni della biodiversità che possono riprendersi rapidamente e aumentare la connettività tra gli habitat naturali in modo che le specie possano spostarsi in risposta al riscaldamento».