Possiamo prevenire l’estinzione dei mammiferi, invece che reagire quando avviene

Uscire da è una visione molto occidentale della conservazione che impone di separare le persone dalla natura

[20 Aprile 2023]

La maggior parte delle iniziative di conservazione della fauna selvatica sono reattive: di solito, una specie deve raggiungere lo stato di minaccia di estinzione prima che venga intrapresa un’azione – come la creazione di aree protette –  per evitare che scompaia,. Il nuovo studio “Priorities for conserving the world’s terrestrial mammals based on over-the-horizon extinction risk”. pubblicato su Current Biology  da Marcel Cardillo (Australian National University – Anu), Alexander Skeels (Anu – ETH Zürich) e Russell Dinnage (Anu e  Florida International University ), dimostra che «Possiamo utilizzare i dati di conservazione esistenti per prevedere quali specie attualmente non minacciate potrebbero diventare minacciate e intraprendere azioni proattive per prevenire il loro declino prima che sia troppo tardi».

Cardillo ricorda che «I finanziamenti per la conservazione sono davvero limitati. Idealmente, ciò di cui abbiamo bisogno è un modo per conoscere prima le specie che potrebbero non essere minacciate al momento ma hanno un’alta probabilità di esserlo in futuro. Prevenire è meglio che curare».

Per prevedere il rischio di estinzione “oltre l’orizzonte”, il team di ricercatori ha esaminato tre aspetti del cambiamento globale – cambiamento climatico, crescita della popolazione umana e tasso di cambiamento nell’utilizzo del suolo – insieme a caratteristiche biologiche intrinseche che potrebbero rendere alcune specie più vulnerabile e prevede che «Entro il 2100, fino al 20% dei mammiferi terrestri presenterà una combinazione di due o più di questi fattori di rischio. A livello globale, la percentuale di specie di mammiferi terrestri che i nostri modelli prevedono avranno almeno uno dei 4 fattori di rischio futuri entro il 2100 varia dal 40% in uno scenario middle-of-the-road emissions con un’ampia dispersione delle specie, al 58% in uno scenario fossil-fueled development senza dispersione».

L’Africa sub-sahariana si distingue perché tutte le principali minacce convergono lì, secondo i ricercatori. Si prevede che nei prossimi 40 anni la regione rappresenterà la metà della crescita della popolazione mondiale e oltre la metà dell’espansione dei terreni agricoli. Allo stesso tempo, si prevede che entro il 2100 le temperature medie aumenteranno di 1,5 volte la media globale. Delle 619 specie presenti, il 31% dovrebbe trovarsi di fronte sia a un rapido aumento dei cambiamenti nell’utilizzo del suolo sia a una rapida riduzione del loro areale a causa del riscaldamento.

Cardillo sottolinea che «C’è una congruenza di molteplici fattori di rischio futuri nell’Africa subsahariana e nell’Australia sud-orientale: cambiamento climatico (che dovrebbe essere particolarmente grave in Africa), crescita della popolazione umana e cambiamenti nell’utilizzo del suolo. E ci sono molte specie di mammiferi di grandi dimensioni che potrebbero essere più sensibili a queste cose. È praticamente la tempesta perfetta».

Gli scienziati fanno l’esempio del cercocebo dal mantello (Lophocebus albigena), una scimmia che vive nelle foreste tropicali dell’Africa centrale che è elencata come “vulnerabile” dall’International Union for Conservation of Nature (IUCN), vicino al centro dello spettro di valutazioni che vanno da “minima preoccupazione” a “estinto”. Pr l’IUCN, la diffusione di strade e fattorie espone il cercocebo dal mantello a  una maggiore caccia. Ma il nuovo studio prevede che in futuro questa specie è ad alto rischio secondo ogni variabile prevista.

Anche se non si prevede che l’Australia registrerà un’impennata della popolazione umana simile a quella africana, le aree meridionali e orientali del continente/isola hanno grandi concentrazioni di animali particolarmente vulnerabili, insieme ai previsti importanti cambiamenti nell’uso del suolo e alla contrazione dovuta al clima che pone alcuni mammiferi a rischio sopravvivenza.

A essere spesso più suscettibili al declino della popolazione sono in particolare i mammiferi più grandi, come elefanti, rinoceronti, giraffe e canguri, perché i loro schemi riproduttivi influenzano la velocità con la quale le loro popolazioni possono riprendersi dai disturbi. Rispetto ai mammiferi più piccoli, come i roditori, che si riproducono rapidamente e in numero maggiore, i mammiferi più grandi, come gli elefanti, hanno lunghi periodi gestazionali e producono meno prole alla volta.

Ma su questo fronte l’Africa subsahariana ha alcuni vantaggi: quando i ricercatori hanno esaminato il modo in cui si sovrappongono le riserve naturali esistenti a dove vivono le specie ad alto rischio, hanno scoperto che «Più animali hanno raggiunto gli obiettivi di protezione in Africa che in molte altre parti del mondo», ma avvertono che «Una pressione per espandere queste riserve in Africa rischia di esacerbare le controversie sui potenziali danni alle persone che vivono nell’area. Espandere la rete in modo da ottenere risultati di protezione della biodiversità rispettando o rafforzando i diritti degli indigeni Sarà una sfida».

Cardillo fa notare che «Tradizionalmente, la conservazione ha fatto molto affidamento sulla dichiarazione di aree protette. L’idea di base è rimuovere o mitigare ciò che sta minacciando la specie. Ma sempre più, viene riconosciuto che questa è una visione molto occidentale della conservazione perché impone di separare le persone dalla natura, E’ una sorta di visione della natura in cui gli esseri umani non svolgono un ruolo, e questo è qualcosa che non si adatta bene a molte culture in molte parti del mondo».

I ricercatori affermano che «Nel prevenire l’estinzione degli animali, dobbiamo anche essere consapevoli di come la conservazione influisce sulle comunità indigene. L’Africa subsahariana ospita molte popolazioni indigene e le idee occidentali di conservazione, sebbene ben intenzionate, possono avere impatti negativi».

L’Australia ha già iniziato ad affrontare questo problema istituendo Indigenous Protected Areas (IPAs) di proprietà delle popolazioni indigene e che operano con l’aiuto dei ranger delle comunità locali. In queste regioni uomini e animali possono coesistere, come stabilito dalla collaborazione tra governi e proprietari terrieri privati ​​al di fuori di queste aree protette.

Cardillo conclude «Gli studi di modellazione su larga scala hanno un ruolo importante da svolgere perché possono fornire un quadro e un contesto ampi per la pianificazione. Ma la scienza è solo una piccola parte del mix. Speriamo che il nostro modello agisca da catalizzatore per apportare qualche tipo di cambiamento nelle prospettive di conservazione».