«E’ ormai chiaro come la pericolosità di questi animali sia stata grandemente sovra-stimata»

Lo squalo e gli uomini: riflessioni di un naturalista squalofilo nel trentennale del “caso Baratti” (VIDEO)

Storie, incontri e pregiudizi raccontati da Gianluca Serra

[1 Febbraio 2019]

Trent’anni fa, il 2 Febbraio, successe un incidente in mare, nel golfo di Baratti vicino a Piombino (LI), che segnò profondamente il sottoscritto come tante altre persone che amano il mare e le sue creature.

Quel giorno infatti si verificò l’ultimo attacco fatale da parte di squalo bianco (Carcharodon carcharias) -confermato e verificato- ai danni di una persona in Italia. La vittima, Luciano Costanzo, era un portuale di Piombino che stava pescando con le bombole (o lavorando a delle condutture subacquee -esistono due versioni al riguardo) ad una ventina di metri di profondità e a circa 3 km dalla costa. Il figlio ed un conoscente, che erano rimasti sulla barca, assistettero impotenti all’attacco di un grosso squalo (si parla di almeno sei metri) che praticamente divorò per intero il povero Costanzo -risparmiando solo le sue bombole.

Proprio in quel periodo mi stavo apprestando a iniziare un lavoro subacqueo di ricerca di ecologia marina poco lontano, all’Isola d’Elba, con l’Università di Firenze. Da quel momento in poi il mare nostrum mi si svelò in tutta la sua ricchezza e fascinazione. Fino allora infatti non avevo sospettato che nel mar Tirreno esistessero squali bianchi, balene e delfini, come tanti altri animali forse meno carismatici ma non per questo meno interessanti (io decisi di studiare l’ecologia comportamentale dei ricci di mare). Fu l’inizio di una grande avventura e passione – ancora oggi molto viva in me. (Immagine 1)

L’evento di Baratti mi segnò, dicevo. In senso positivo però. Ho infatti la fortuna e privilegio di appartenere a quel genere di persone affascinate dalla natura e in profonda connessione con i suoi abitanti non umani. Considero i grandi predatori, terrestri e marini, come “i gioielli della corona” del regno animale (sensu E.O. Wilson). Sapere che c’era un grosso Carcharodon che si aggirava nel Tirreno arricchì enormemente l’esperienza subacquea di due anni all’Isola d’Elba (e successivamente all’Argentario) di noi due studenti tesisti alle prime armi.

Certo un po’ di brividi e pelle d’oca ci venivano di tanto in tanto (ci immergevamo soprattutto di notte, in tutte le stagioni). Ma allo stesso tempo sentirsi parte integrante di qualcosa di più grande e potente, un ecosistema marino vivo- retrocedere di livello nella piramide alimentare- ci trasmetteva energie e vibrazioni non di poco conto e che sono rimaste impresse profondamente in noi.

La cosa interessante di quell’evento fu il modo in cui venne trattato dai media locali e nazionali. Nei primi giorni la cosa venne riportata per quello che era stata (dopotutto c’erano due testimoni oculari, le bombole avevano grossi e inequivocabili marchi di dentate e si era trovato un frammento di interiora umane nella zona dell’incidente). Ma, pochi giorni dopo, avvenne la sterzata improvvisa e di colpo i media cominciarono a dare credito e risalto a ipotesi che oggi definiremmo “complottiste”: fu diffusa allora la teoria che era stata tutta una messa in scena e che Costanzo si era probabilmente dileguato oltre confine per accaparrarsi qualche premio assicurativo sulla vita.

Il figlio Gianluca che era stato impotente testimone della tragedia- ripresosi dal trauma- intraprese una doverosa azione legale che si risolse meno di un anno dopo con la condanna dei media. Ma a quel punto nessuno era più interessato alla storia e nella testa della maggior parte dell’opinione pubblica era rimasta la convinzione o il dubbio che questo evento non fosse mai successo. Forse anche grazie ad un meccanismo collettivo di rimozione: si preferì credere, anche magari inconsciamente, a qualcosa di più attraente e meno scomodo. (“No, dai, non ci sono mica squali pericolosi vicino alle nostre coste”.)

Poco importa se, come emerse tempo dopo, questo grosso squalo era stato visto da vari testimoni anche prima dell’attacco a Costanzo; e che fu cacciato per vari mesi dopo l’attacco, tra Piombino e la foce dell’Arno, con un certo dispiegamento di mezzi, senza alcun esito.

Comunque, il dato di fatto è che questo evento entrò a far parte integrante della lista degli attacchi confermati e verificati di squalo bianco in varie pubblicazioni e database scientifici internazionali -fu verificato ed accettato nel 1996 nell’autorevole Shark Attack File. L’ipotesi più probabile è che l’industria del turismo abbia avuto un ruolo attivo nel disinformare e depistare, con i media sempre pronti a compiacere le élites economiche locali timorose di avere ricadute negative sul loro business.

Un altro caso eloquente, che conferma quanto ipotizzato sopra, è successo nel 2011, allorquando dei ricercatori dell’università di Firenze filmarono uno squalo bianco a largo dell’isola di Capraia, nel parco nazionale dell’arcipelago toscano. Il video fu pubblicato online e i media riportarono le minacce di querela da parte dell’assessore al turismo del comune di Capraia. Una mossa ridicola quanto vana che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto l’argomento squalo (bianco) in Italia sia ancora un vero tabù.

In società con maggiore consapevolezza ed educazione naturalistica ed ecologica l’avere predatori potenzialmente pericolosi che si aggirano nei propri ambienti naturali non viene visto come qualcosa di nocivo nei confronti dell’industria turistica. Anzi. E’ un punto a favore, in quanto testimonia dell’integrità degli ecosistemi naturali. E gli incidenti, molto rari e insignificanti in termini di probabilità se confrontati ad altri rischi a cui siamo sottoposti quotidianamente, sono accettati come qualcosa di ineluttabile. Chi vuole addentrarsi in quello che rimane di wilderness o natura selvaggia del nostro pianeta al giorno d’oggi deve per lo meno accettare serenamente i rischi associati. (Immagine 2)

Nessuno si sognerebbe di censurare la presenza dei leoni nei paesi africani interessati dal turismo dei safari, o quella di squali e coccodrilli antropofagi in Australia o quella del grizzly negli Stati Uniti. Nei paesi con maggiore consapevolezza ecologica addirittura sono spesso le stesse persone che hanno avuto incidenti con gli squali, anche gravi, a battersi per la loro conservazione. L’atteggiamento censorio che si riscontra in Italia deriva soprattutto da una storica scarsa educazione e consapevolezza ecologica e naturalistica della nostra società.

La conseguenza è la poca conoscenza da parte degli italiani circa la presenza di animali marini carismatici nelle nostre acque costiere. Ricordo di essere rimasto molto deluso quando un giorno di infanzia chiesi a mio nonno, mentre eravamo appollaiati su uno scoglio del molo di Viareggio al cospetto del grande mare, se i grandi leviatani abitassero quelle acque. Lui mi rispose convinto di no. Forse non se ne accorse ma questo mi deluse molto. Era un grosso limite alla mia immaginazione e suggestione. Qualche lustro dopo, dedicandomi al mare ed al suo studio, capii, con grande sollievo, che mio nonno, come la maggioranza degli italiani, non era in realtà al corrente.

Spendendo parecchio tempo nei paesini dell’Elba fuori stagione, nei primi anni Novanta, mi dilettavo ad interrogare i pescatori locali circa la presenza di questi grandi animali marini. Mi resi ben presto conto che lo squalo bianco è ben conosciuto all’Isola d’Elba ed ha addirittura un nome locale molto originale ed evocativo: “tacca di fondo”. Un’indicazione incontrovertibile che la bestia in questione ha una lunga storia di interazione con gli umani locali. I quali dimostrano di conoscerne i tratti comportamentali salienti: “di fondo” probabilmente si riferisce al comportamento predatorio tipico del bianco che attacca spesso le prede in superficie emergendo all’improvviso dal fondale.

Questo nomignolo lo sentii pronunciare la prima volta da un vecchio pescatore, una mattina d’inverno e di “mare grosso”, presso il porticciolo di Marciana Marina. Bloccato a terra, mi ritrovai a chiacchierare con questo signore dall’accento meridionale (Aniello Mattera, di Ponza), che stava aggiustando delle reti da pesca. Tra le tante meraviglie che mi raccontò ad un certo punto emerse una “gemma”: mi descrisse un attacco al suo gozzo da parte, appunto, di una tacca di fondo fuori dal porto di Marciana Marina. Attacco che vide lo squalo prendere la chiglia del gozzo di legno a morsi. Si salvò solo grazie a un secondo gozzo che accompagnava la battuta di pesca. La tacca inseguì addirittura le due piccole imbarcazioni fino dentro il porto del paesino elbano!

Devo dire che la storia mi piacque da morire ma non credetti ad una parola, pensando fosse una tipica storia “da marinaio”. Nondimeno gliene fui grato per le suggestioni che mi creò in quella trasognata mattina di ozio. Qualche decennio dopo rimasi di stucco quando l’elbano Umberto Mazzantini, giornalista di greenreport.it, subacqueo di lungo corso nonché responsabile mare di Legambiente, mi citò lo stesso caso come vero – e subito dopo verificai che questo stesso racconto era validato in una pubblicazione scientifica del 2005 che elenca tutti i casi accertati di avvistamento di squali bianchi nel Mar Tirreno (nel quale viene specificato che l’evento in questione ebbe luogo nel 1984). Incluso il dettaglio, raccontatomi direttamente dal pescatore, che la chiglia del suo gozzo con le dentate del Carcharodon era stata conservata per molti anni come cimelio a Marciana Marina.

Il fatto è che lo squalo bianco, nonostante gli sforzi di rimozione della provinciale industria del turismo italiana, è sempre stato di casa in Mediterraneo, in stretta associazione con i banchi di tonno, specialmente quello rosso (Thunnus thynnus). Infatti, veniva pescato o incontrato regolarmente presso le tonnare sparse sulla costa dello stivale (inclusa l’Isola d’Elba, per l’appunto). Senza contare che fino a pochi decenni fa la foca monaca (Monachus monachus) era ancora diffusa nel Mediterraneo -la preda ideale per un grosso squalo come il bianco. (Immagine 3)

Altre prede ambite dal Carcharodon in Mediterraneo sono i delfini (Tursiops truncatus, Delphinus delphis, Stenella coeruleoalba), il pescespada (Xiphias gladius) e la tartaruga Caretta caretta. La presenza del predatore sembra maggiore nel settore occidentale del Mediterraneo, in particolar modo nello Stretto di Sicilia e nell’Adriatico, di solito nei mesi estivi. La prima descrizione attendibile di questa specie nel Mediterraneo risale al 476dc, anno della caduta dell’impero romano.

In effetti, a lungo si è ritenuto che l’esemplare più grande al mondo registrato fosse una femmina pescata sulla costa mediterranea francese negli anni Cinquanta, con una lunghezza di quasi 6 metri. Salvo poi questo record essere polverizzato da un esemplare di 7 metri pescato nel Bosforo nel 1975.

Ancora meno conosciuto il fatto che negli ultimi anni nelle acque turche sono stati trovati tre cuccioli di squalo bianco, durante due anni consecutivi, la qual cosa ha dato adito alla interessante ipotesi che questa specie venga a riprodursi nel nostro mare. In effetti diversi cuccioli di squalo bianco sono stati pescati anche nel canale di Sicilia, nell’Adriatico e nell’Egeo. (Immagine 4)

Con l’avvento di internet sono emersi filmati, alcuni datati ma altri recentissimi, che testimoniano la presenza di questo predatore nei nostri mari. Quello che mi ha colpito di più, pubblicato nel settembre del 2017 e girato in vista della costa di Gallipoli (LE), mostra dei pescatori su una piccola imbarcazione che interagiscono con un grosso esemplare di bianco come se avessero a che fare con un cagnolino. Lui se ne sta con il testone appuntito e gli occhiacci neri fuori dall’acqua, forse avvezzo ad accattare resti di pescato dai suddetti, mentre loro lo accarezzano sul muso e lui fa scatti morsicatori bluff, dall’apparenza giocosa, come fanno i cani! Sorprende la familiarità e mancanza di timore di questi pescatori verso il bestione, quasi fosse una lora vecchia conoscenza o un nume protettore.

Anche quello girato al largo della costa romagnola, direi qualche decennio fa (a giudicare dal tipo e qualità di video), pubblicato nel 2015, è di per sé notevole. Padre e figlio che si godono un po’ di pesca d’altura, con musichetta balneare in sottofondo. Il ragazzo riesce a pescare uno squalo di medie dimensioni (forse un mako Isurus oxyrinchus) che viene agganciato e legato al lato della imbarcazione. Ad un certo punto, appare uno squalo bianco di dimensioni ragguardevoli, che comincia tranquillamente a divorare a grandi morsi e scossoni, con tutta la testa fuori dall’acqua, il pescione legato al fianco dell’imbarcazione.

Mi fa sorridere il tono blasé del padre mentre apostrofa al figlio questa manifestazione come fosse la cosa più normale al mondo. Ad un certo punto il bambino, evidentemente un po’ impressionato e forse il più lucido tra i due, erompe in un tentativo: “dai, andiamo via…!”. In effetti, un fatto poco conosciuto è che l’Italia guida la classifica del numero di attacchi di squali in Europa, con 50 attacchi dal 1900, di cui 11 fatali (l’ultimo, appunto, quello di Baratti). La Croazia e la Grecia hanno invece avuto meno attacchi totali ma quelli fatali sono stati 12 e 13 rispettivamente. Non ci sono dubbi che tutti questi attacchi mortali in Mediterraneo sono opera dello squalo bianco, in quanto è certamente la specie più grossa e che frequenta spesso le acqua costiere.

Altre specie presenti in Mediterraneo, di dimensioni molto minori, come la verdesca (Prionace glauca) e lo squalo volpe (Alopias vulpinus), si avvicinano raramente alla costa. Qualche anno fa i giornali inglesi, in seguito ad un attacco di squalo bianco ad un bagnante in Spagna, hanno trattato l’argomento ampiamente, mettendo in risalto il fatto che quando si parla di questi animali si pensa subito a posti lontani come il Sudafrica, California o Australia – e a nessun turista britannico in vacanza nel Mediterraneo verrebbe in mente che anche in questi cari lidi, con un po’ di fortuna (o sfortuna, a seconda dei punti di vista), si potrebbe incontrare qualcosa di grosso e interessante mentre si sguazza nell’acqua estiva.

D’altra parte, la mappa con la distribuzione mondiale degli attacchi di squali a persone è molto eloquente. E conferma che anche nel Mediterraneo non si scherza. O meglio, non si scherzava.

Si, perché in effetti negli ultimi 20 anni la popolazione mondiale di squali è crollata di più del 90%, sia per la persecuzione diretta (grazie alla domanda cinese/asiatica per produrre la famosa zuppa di pinne di squalo) sia anche per la diradazione degli stock ittici di grandi dimensioni (per esempio i tonni). In Mediterraneo, uno dei mari più sovrasfruttati del mondo, in particolare i tonni rossi sono quasi scomparsi del tutto (anche se nell’ultima decade, in seguito a misure di protezione, sembra stiano recuperando).

E’ quindi molto probabile che dai tempi dell’incidente di Baratti la presenza dello squalo bianco nel nostro paese, come quella delle altre 47 specie presenti nel Mediterraneo, si sia rarefatta ancora di più, come dimostrato dal decremento progressivo nel numero di osservazioni (nel decennio 1989-1998, le segnalazioni di squalo bianco sono state 76, mentre nel decennio seguente sono state 42). Tutto questo nonostante la specie sia protetta sia in Italia (dal 1999) che in tutta Europa (dal 2000). (Immagine 5)

La mattanza degli squali sta proseguendo quasi indisturbata in tutto il mondo: ancora non esistono regolamenti o accordi internazionali per proteggerli. Un documentario imperdibile sugli squali e il loro eccidio sistematico è Sharkwaters del 2006 del regista canadese Rob Stewart -morto in mare pochi anni fa (no, non divorato da uno squalo).

E’ chiaro come vi sia una certa inerzia, anche da parte dell’opinione pubblica ambientalista, a sollevarsi in supporto degli squali -come invece è successo a favore di balene, delfini ed orche nel passato recente. Il problema è che gli squali hanno un vero e proprio problema di immagine. Grazie al regista Steven Spielberg che diresse Lo Squalo (noto nel resto del mondo come “Jaws” = Fauci), uscito in tutto il mondo nel 1975. Un film questo che ha terrorizzato intere generazioni, a livello globale, dipingendo il predatore oceanico come un mostro assetato di sangue umano. (Immagine 6)

Come spesso succede, miti e pregiudizi vengono poi largamente diluiti se non nebulizzati del tutto dalla ricerca scientifica e dall’esperienza diretta. Dai tempi in cui uscì quel film infatti, si è approfondita molto la conoscenza sulla ecologia e comportamento degli squali. Si è chiarito che questi predatori al vertice della piramide alimentare oceanica non  identificano Homo sapiens come preda. Sono “programmati”, da milioni di anni, per cacciare animali marini di grossa taglia.

Certo, capita che siano grossi predatori e come tali dotati di una certa aggressività, forza e poco timore reverenziale verso piccole creature che invadono sempre più i loro spazi vitali (noi). Senza menzionare che possono contare tra le fauci più impressionanti del regno animale -in special modo lo squalo bianco che dispone di enormi mascelle che protrudono parzialmente all’esterno della bocca durante il morso, contornate da serie di altrettanto enormi denti acuminati dalla caratteristica forma triangolare (in effetti il titolo originale del film di Spielberg, “Fauci”, era molto più azzeccato della traduzione in italiano, “Lo Squalo”).

Dovremmo rispettarli e contemplarli per il semplice fatto che già esistevano, esattamente nelle stesse fattezze come appaiono oggi, ai tempi dei dinosauri -con quel particolare design anatomico elegante e altamente efficiente e quel caratteristico scheletro cartilagineo. Ovvero esistono su questo pianeta da molti milioni di anni prima che noi primati facessimo la nostra comparsa. Sono chiaramente creature dal grande successo evolutivo, con un ruolo ecologico importantissimo negli ecosistemi oceanici sia costieri che di acque profonde. Come è stato provato per top predators come i lupi in relazione a ecosistemi forestali, la rimozione degli squali provoca una cascata a catena di effetti che porta a cambiare e impoverire l’intero ecosistema marino.

Girano e migrano instancabili su lunghe distanze attraverso gli oceani come stanno svelando vari progetti che prevedono la marcatura satellitare degli animali ed il successivo rintracciamento su lunghi periodi. Recentemente si è cominciato a fare luce su un mistero che affliggeva studiosi ed appassionati squalofili da molto tempo: si era scoperto infatti che gli squali bianchi delle coste occidentali nordamericane migrano e si ritrovano in un punto remoto in mezzo al Pacifico una volta l’anno -il cosiddetto “Shark Cafe’”, circa 1200 miglia nautiche a est delle Hawaii.

La zona non è conosciuta come ricca di pesce e quindi l’ipotesi più accreditata era quella del rendez-vous a fini di corteggiamento e accoppiamento. Invece recentemente si è scoperto, a sorpresa, che il motivo sarebbe proprio alimentare: i predatori convergono da ogni dove per banchettare negli abissi, raggiungendo i 1000 metri di profondità, su prede ancora non conosciute che vivono poco sopra la soglia del buio perenne.

In generale, si è capito quindi che nella stragrande maggior parte dei casi le interazioni tra uomini e grossi squali sono delle “esplorazioni” compiute dal predatore verso degli ammennicoli dall’apparenza curiosa: spesso vanno incontro alle persone in mare per dare una “spallata” di curiosità (succede anche con piccole imbarcazioni); oppure si avventurano a dare un morsetto esplorativo tanto per capire di cosa si tratta (scappando dipoi disgustati, specialmente se assaggiano mute in neoprene, canoe in fibroresina e roba simile).

Infatti la stragrande maggioranza delle interazioni uomo-squalo non sono fatali e si risolvono con grande paura oppure con un bel ricordo sotto forma di cicatrice da morso o arto mancante. In questi casi la dimensione del predatore determina l’esito: chiaramente un morso di uno squalo bianco o uno squalo tigre (Galeocerdo cuvier), le due specie di taglia large, può avere esiti abbastanza vistosi e/o deleteri. Ma nondimeno la maggior parte delle vittime sopravvivono all’attacco: in Australia per esempio, dove i tassi di attacco sono tra i più alti al mondo, solo il 9% degli attacchi risulta fatale.

Sono molto rari i casi in cui il predatore decide di trasformare un bipede in pasto completo: questo succede quasi sempre a causa di uno stato di confusione da parte del predatore che è causato dagli ignari umani. Il caso classico sono i surfisti, la cui silhouette scura da sotto l’acqua ricorda molto da vicino quella delle prede preferite degli squali bianchi: i pinnipedi come i leoni di mare o foche di vario genere. Quindi fare surf in zone dove esistono colonie di pinnipedi e in cui si aggirano gli squali bianchi rappresenta una specie di roulette russa. (Immagine 7)

Per questo motivo succedono molti attacchi, anche fatali, in zone come la California e l’Australia, dove i surfisti e i grandi squali si incontrano (e dove ci sono pinnipedi in abbondanza). L’altra situazione che invita a nozze l’attenzione da parte degli squali è quella di cacciare con la fiocina in apnea; ancor più se si caccia pesci grossi e se in acque fonde. Infatti questi predatori sono capaci di avvertire da decine di chilometri di distanza la presenza di pesce sanguinante e in fin di vita. Ci sono molti video online di apneisti con pesce appena infiocinato, la telecamera in testa e lo squalo di turno che gli gira intorno con l’acquolina alla bocca.

In effetti, l’ipotesi più parsimoniosa riguardo al caso di Baratti, secondo me, è che Costanzo stesse pescando con la fiocina -nonostante le bombole. Pratica questa vietata in Italia: si spiegherebbe cosi il fatto che sia circolata una versione alternativa più accettabile, cioè che fosse invece impegnato a lavorare su delle condotte marine.

Comunque, come si diceva, considerando le statistiche, le probabilità di attacco anche lungo le coste considerate pericolose sono molto basse. In Australia muore molta più gente ogni anno uccisa da imenotteri (api, vespe e calabroni) o da erbivori domestici (mucche, cavalli ecc.) che non da squali.  Sempre in Australia si è calcolato che in ogni dato momento si hanno 580 probabilità in più di morire in un incidente stradale che non in seguito all’incontro con uno squalo.

Mentre nel 2015, 34 persone sono state uccise da cani nei soli Stati Uniti – a fronte di solo cinque uccisioni umane da parte di squali a livello planetario. Il fatto è che l’attacco da parte di uno squalo smuove paure arcane e cattura l’attenzione dei media molto di più suggestionando a fondo l’immaginario collettivo (stimolando spesso il ricordo del film di Spielberg). Di converso gioverebbe ricordare che per ogni uomo ucciso da uno squalo è stato stimato che ci sono 8 milioni di squali uccisi dagli uomini in tutto il mondo.

Nell’ultimo quindicennio scienziati e amanti dell’oceano hanno dimostrato con prove dirette e tangibili che questi animali in realtà non sono quei mostri sanguinari dipinti da Hollywood. Tra l’altro l’autore del libro Jaws, Peter Benchley, perseguitato dai sensi di colpa, lanciò una campagna di protezione in favore degli squali nel 2000. Esiste ormai ampia documentazione di persone che si immergono e interagiscono con grossi squali in tutta tranquillità. Alcune scene sono quasi commoventi in quanto sembra che agli squali piaccia addirittura di essere accarezzati dai sub. Come succede con i grossi squali tigre delle Bahamas. (Immagine 8)

Proprio in questi giorni ha destato scalpore l’arrivo di tre squali bianchi tra i più grandi al mondo, tra cui uno dal nome di Deep Blue, presso le Hawaii. Sono femmine di una certa età che si sono raccolte a banchettare intorno ad una carcassa di balena. Alcuni apneisti hanno avvicinato sott’acqua una di queste “nonne” che si è dimostrata mansueta e tranquilla (certo, dopo aver pasteggiato per vari giorni sulla balena e aver raggiunto un volume pari a quello di un sommergibile).

E’ ormai chiaro come la pericolosità di questi animali sia stata grandemente sovra-stimata. Ci sono pescatori subacquei che, usando la conoscenza del comportamento e il rispetto dovuto, convivono con questi predatori nell’ambiente marino senza riportare danni. Come il pescatore californiano di ricci Ron Elliot che per anni ha pescato in uno degli angoli dell’oceano con la più alta concentrazione di squali bianchi al mondo: le Farallon Islands, al largo di San Francisco. Nessun altro pescatore-competitore di ricci è stato mai disposto a fare quello che faceva lui, quindi deteneva l’esclusiva su quella ricca area. Eppure Elliot racconta che, nonostante si sia trovato a tu per tu con gli squali bianchi sott’acqua centinaia di volte (in acque torbide, peraltro), non gli sia mai successo niente. Insomma, la gente che conosce gli squali direttamente e da vicino non sembra esserne spaventata più di tanto.

Anche il sottoscritto, da accanito squalofilo quale è, ha cercato l’incontro con queste creature più di una volta e, tranne un caso in cui un esemplare di una certa stazza lo ha “attenzionato” un po’ troppo per i suoi gusti (ma solo per curiosità eh!), ne ha sempre goduto grandemente: la loro vista inspira davvero grande rispetto e ammirazione estatica. Non è una questione di adrenalina: è semplicemente una gioia e privilegio quella di poter contemplare, alla dovuta distanza, queste magnifiche, preistoriche ma anche complesse creature dell’oceano.

di Gianluca Serra – Ecologo animale e conservazionista

Videogallery

  • Gallipoli, pubblicato estate 2017

  • Capraia, Luglio 2011

  • ITALY: GREAT WHITE SHARK SIGHTED OFF COAST OF RIMINI

  • PESCATORI DI GALLIPOLI GIOCANO CON UNO SQUALO BIANCO, DA VEDERE!!