Le aree marine protette possono ridurre le malattie marine?

Il complicato rapporto tra protezione del mare, pesca, attività antropiche e salute delle creature marine e umana

[5 Maggio 2021]

Il magazine ufficiale dell’Institute of Environmental Health, Environmental Health News (EHN) ha realizzato un’inchiesta sentendo esperti di malattie marine sul ruolo che può svolgere la protezione degli oceani nella lotta all’aumento dei livelli di malattie marine. Le malattie marine infettive, spesso causate da parassiti, virus e lesioni e favorite dai cambiamenti climatici, stanno sempre più colpendo diversi animali marini: la malattia da deperimento delle stelle marine, la malattia delle macchie bianche dei gamberi e la peste bianca nel corallo hanno sterminato innumerevoli esseri viventi necessari per mantenere sani gli ecosistemi marini.

Come scrive Quinn Mcveigh su The Daily Climate, «Per coralli, crostacei e pesci, il riscaldamento delle temperature sta compromettendo le loro risposte immunitarie durante i focolai di malattie. Allo stesso tempo, il cambiamento climatico sta alimentando l’acidificazione degli oceani, i cambiamenti delle precipitazioni e maggiori danni provocati dalle tempeste, tutti fattori che determinano le malattie marine»

Lo studio “Unchartered waters: Climate change likely to intensify infectious disease outbreaks causing mass mortality events in marine mammals”, pubblicato a giugno 2020 su Global Change Biology da Claire Sanderson  e Kathleen Alexander del Virginia Tech, evidenziava che anche i mammiferi marini, come le lontre marine e le foche, stanno subendo pesantemente l’aumento delle malattie. Tra il 1955 e il 2018, un sesto delle specie di mammiferi marini ha subito morie di massa a causa di malattie infettive e le anomalie stagionali e della temperatura del mare legate ai cambiamenti climatici sono fortemente associate alle epidemie virali di mammiferi marini». Drew Harvell, professore di ecologia alla Cornell University, ha detto a EHN: «La malattia è spesso una buona sentinella di un cambiamento nell’equilibrio della natura»,

Che la situazione de<i mari e oceani sia drammatica ne sono consapevoli anche i leader mondiali: al recente One Planet Summit, 50 Paesi (Italia compresa) che fanno parte della High Ambition Coalition (HAC) per la natura e le persone, si sono impegnati a proteggere il 30% delle loro acque costiere entro il 2030. Attualmente è fortemente protetto solo il 2,7% dell’oceano. In alcuni Paesi, i “parchi di carta”, aree identificate come protette su una mappa ma sono mal gestite e offrono poca o nessuna protezione legale, come il Santuario internazionale dei mammiferi marini tra Italia, Francia e Principato di Monaco, costituiscono l’80 – 90% delle aree marine protette (AMP). Invece le AMP dovrebbero essere ecosistemi marini istituiti dai governi dove, a seconda delle forme di protezione, sono regolamentate o proibite attività come le trivellazioni petrolifere, la pesca industriale. Mcveigh  ricorda che «Le strutture delle AMP variano in tutto il mondo, ma l’obiettivo principale è la pesca eccessiva». Secondo il Wwf, 3 miliardi di persone fanno affidamento sul pesce come fonte proteica primaria, mentre le popolazioni degli stock ittici utilizzati dagli esseri umani sono diminuiti della metà».

Con l’estensione e l’istituzione di nuove AMP ci saranno probabilmente cambiamenti nella dinamica delle malattie degli ecosistemi marini. La domanda è: questo sarà utile per le specie che sono state devastate da parassiti, virus e infezioni da lesioni? Per capire i diversi modi in cui le AMP potrebbero portare benefici a queste popolazioni vulnerabili, EHN ne ha parlato con 4 scienziati marini, compreso Harvell,.

La prima cosa certa è che quando la pesca diminuisce, diminuiscono anche i parassiti che infettano gli ospiti nella parte inferiore della catena alimentare. Chelsea Wood, della School of Aquatic and Fishery Sciences dell’università di Washington – Seattle, ha detto a EHN che «Nelle AMP si tende a vedere un aumento dei predatori perché quelle sono le specie che le persone [pescano] più voracemente. Quindi, si può osservare un corrispondente calo delle prede di quei predatori». Quindi, in un’area marina dove la pesca viene vietata aumenta il numero  dei predatori perché non vengono pescati i peesci più grandi che sono le prede preferite dei pescatori. «Di conseguenza, i pesci più piccoli vengono mangiati dai predatori, limitando la quantità di ospiti ai quali alcuni parassiti possono attaccarsi – spiega la Wood – Ad esempio, i parassiti che infettano il tonno potrebbero diminuire nelle aree marine protette dove è vietata la pesca degli squali, perché il predatore apicale non permetterà alle popolazioni di tonno di essere incontrollate». Insomma, quando i parassiti non hanno ospiti da infettare, non possono diffondere la malattia. Ma la Wood fa notare che «C’è un rovescio della medaglia. Proprio come vietare la pesca può ridurre il parassitismo consentendo alla predazione di fare il suo corso, è vero anche il contrario. La regola generale è: quando una specie ospite si moltiplica, lo faranno anche i parassiti corrispondenti. Quando la pesca non è consentita in un’area, i parassiti che infettano le specie più grandi e ricercate aumenteranno».

Nello studio “Marine protected areas facilitate parasite populations among four fished host species of central Chile”, pubblicato nel 2013 sul Journal of Animal Ecology,  la Wood e un team di ricercatori cileni e statuinitensi hanno scoperto che in 4 specie marine comunemente pescate i parassiti erano significativamente più diffusi nelle aree protette. ED è il fatto che in natura tutto è attaccato che rende le cose così complicate: proteggere gli squali riduce i parassiti del tonno, ma aumenteranno i parassiti degli squali.

Inoltre, lo studio “Invertebrate health in marine protected areas (MPAs)”, pubblicato a dicembre 2020 sul Journal of Invertebrate Pathology  da Charlotte Davies del Department of Biosciences della Swansea University rivela che la chiusura di un’area alla pesca può avere altre conseguenze indesiderate, come il sovraffollamento causato da livelli maggiori di biodiversità, biomassa e dimensioni corporee. Il sovraffollamento può far aumentare le ferite, lo stress e la trasmissione di parassiti che sono ognuno agent i delle malattie. «L’elevata densità di popolazione aumenterà a sua volta la prevalenza e l’intensità dei loro patogeni associati», ha detto la Davies a EHN.

Ma Kevin Lafferty, ecologo del Marine Science Institute dell’università della California – Santa Barbara, fa notare che «Le aree marine protette che limitano i fattori di stress antropici possono prevenire il logoramento, alleviando gli impatti dell’infezione».

La ricerca sulle barriere coralline di Joleah Lamb, che insegna ecologia e biologia evolutiva all’università della California – Irvine, dimostra che nelle AMMP le malattie si diffondono più lentamente grazie alla riduzione delle ferite dovute alla pesca, alla nautica e alla caccia subacquea. Nello studio “Protected areas mitigate diseases of reef‐building corals by reducing damage from fishing”, pubblicato nel settembre 2015 su Ecology, Lamb e gli australiani David Williamson, Garry Russ e Bette Willis della James Cook University, definiscono le AMP  che gestiscono le barriere coralline minacciate «Un sistema modello ideale» per valutare se limitare l’uso umano può ridurre al minimo le malattie. Lo studio ha scoperto che «I coralli all’interno delle riserve marine integrali, dove gli incidenti egati alla pesca sono inesistenti perché ci sono severi divieti di pesca, avevano 4 volte meno malattie rispetto a quelli che non erano protetti».

In un altro studio  “Scuba diving damage and intensity of tourist activities increases coral disease prevalence”, pubblicato nell’ottobre 2014 su Biological Conservation, Lamb e un team di ricercatori australiani e indonesiani hanno rilevato un aumento di tre volte delle malattie dei coralli intorno all’isola thailandese di Koh Tao nelle aree ad elevato uso di immersioni subacquee e turistiche incontrollate rispetto alle aree protette controllate.

Lafferty ha spiegato ancora su EHN che «Le malattie dei coralli sono più elevate nei luoghi in cui i coralli subiscono lesioni, e alcuni dei modi in cui si feriscono è attraverso gli attrezzi da pesca e le immersioni. Quindi, se impedisci alle persone di pescare nelle barriere coralline, hanno meno lesioni e soffrono di meno le infezioni secondarie batteriche e fungine».

Un anno dopo che il ciclone tropicale Yasi aveva colpito la costa, in un caso le aree protette della Grande Barriera Corallina al di fuori dell’Australia avevano 7 volte meno malattie rispetto alle aree non protette. Nello studio “Reserves as tools for alleviating impacts of marine disease” pubblicato nel marzo 2016 sullo spegiacle “Marine disease” di Philosophycal Transaction of the Royal Society B, Lamb e un altro team di  ricercatori fanno notare che, quando il ciclone Yasi ha colpito, nelle zone tutelate integralmente dalla pesca la resilienza della barriera corallina è stata molto migliore.

La Davies evidenzia che «Un terzo modo in cui le AMP possono prevenire la diffusione delle malattie è proteggendo gli ecosistemi che filtrano gli agenti patogeni. Le praterie sottomarine, sono un esempio.

Gli ecosistemi di fanerogame marine, molti dei quali hanno protezioni governative extra a causa della loro vulnerabilità, possono ridurre l’esposizione a patogeni batterici di esseri umani, pesci e invertebrati filtrandoli efficacemente».

Harvell ha collaborato con Lamb a uno studio in Indonesia, dove hanno misurato la quantità di diminuzione dell’inquinamento umano e dei batteri patogeni nelle praterie sottomarine di fanerogame, come la posidonia oceanica nel Mediterraneo, e hanno notato che «Tra le fanerogame marine, i livelli di inquinamento erano inferiori del 50% rispetto agli spazi aridi. Anche la malattia dei coralli vicino alle fanerogame marine era inferiore del 50%».

Nel suo studio “Effect of Marine Protected Areas on Tropical Seagrass Ecosystems”, Elisa Aloso Aller della  Stockholms universitet, conferma che «Una maggiore protezione delle fanerogame marine genera benefici a tutto tondo per gli ecosistemi marini. Quando le praterie di fanerogame marine vengono protette, la ricchezza delle specie, l’abbondanza e le dimensioni dei pesci che sostengono aumentano. Proteggono anche gli invertebrati dall’acidificazione e sequestrano il doppio del carbonio rispetto alle foreste terrestri».

Ma, mentre le fanerogame riducono le malattie marine e aumentano del 20% la produttività delle più grandi attività di pesca del mondo, secondo Smithsonian Ocean ogni ora scompaiono quasi due campi di calcio di praterie sottomarine. L’inquinamento da sostanze nutritive, l’erosione e il cambiamento climatico sono i principali fattori di perdita delle piante marine e Harvell. Ribadisce che «Dovrebbero essere protetti perché hanno dei super poteri per ridurre le malattie, mitigare il clima e fornire l’habitat per i piccoli pesci, ma molte praterie marine vengono distrutte, danneggiate o vanno perse in tutto il mondo».

Harvell aggiunge che «Un clima caldo favorirà sempre più spesso la diffusione di malattie marine per alcune specie fondamentali come i coralli e le fanerogame. Questo potrebbe comportare la perdita di habitat per intere comunità ecologiche».

Quindi le AMP possono essere la risposta a questo problema in aumento? «Dipende», rispondono gli scienziati.

Le malattie, come ha drammaticamente dimostrato il Covid-19, non rispettano nessun confine. «Le AMP possono limitare i fattori di stress umani come la pesca, la ricreazione e la contaminazione che scatenano la malattia, ma come per molte domande riguardanti l’ecologia, non c’è una risposta – dicono i ricercatori –

Sono necessarie ulteriori ricerche per rispondere in modo definitivo a questa domanda, ma molte prove indicano che le AMP sono uno strumento efficace per la mitigazione delle malattie per le specie bersaglio».

EHN conclude: «Con una maggiore ricerca, la prevenzione delle malattie potrebbe essere aggiunta alla miriade di vantaggi che gli scienziati hanno attribuito alle AMP, come la crescita della pesca, le opportunità economiche e il ripristino dell’ecosistema dopo un disastro».