La strategia Ue per la biodiversità e i popoli indigeni

Le denunce di Survival International contro la “Bugia Verde” e la necessità di tutelare l’ambiente in un mondo che cambia

[18 Novembre 2020]

La prossima Conferenza della parti della Convention on biologiocal diversity (CBD) che si terrà in Cina, dovrebbe approvare  un obiettivo del 30% di territorio e mare protetto (il 10% fortemente protetto) che è condiviso dall’Onu, da Papa Francesco, dalle associazioni ambientaliste e dall’Unione europea che lo ha già inserito nella sua nuova Direttiva per la biodiversità. Un obiettivo che però preoccupa che teme un possibile impatto sui popoli autoctoni e che vede la netta contrarietà di Survival International che, continuando la sua durissima battaglia che dura da anni contro  Wwf, Wcs e altre grandi associazioni protezionistiche internazionali, parla di «Bugia Verde» ed estende un modello impositivo delle aree protette realizzato in Paesi come l’India o in Africa Centrale anche al resto del mondo, sorvolando però sul fatto che i popoli che anche Survival difende in Brasile sono i primi guardiani di aree protette che il governo del neofascista di Jair Bolsonaro vorrebbe eliminare per sfrattarli dalle loro terre ancestrali e consegnale a fazendeiros, minatori  e boscaioli abusivi. Altre comunità autoctone gestiscono aree protette marine e terrestri traendone vantaggio con l’ecoturismo, lo sfruttamento sostenibile delle risorse e la pesca.

Ma Survival guarda solo alla faccia “sporca” della medaglia e denuncia che « Le aree protette non salveranno il nostro pianeta. Al contrario, aumenteranno la sofferenza umana e in tal modo accelereranno la distruzione degli spazi che pretendono di proteggere, perché l’opposizione locale crescerà. Le aree protette non hanno alcun impatto sui cambiamenti climatici, ed è stato dimostrato che sono generalmente mediocri nel prevenire la perdita di vita selvatica.  E’ fondamentale che vengano proposte soluzioni concrete per affrontare questi problemi urgenti e che la causa reale – il crescente sovra-consumo, radicato nel Nord del mondo – sia adeguatamente riconosciuta e discussa. Ma è improbabile che ciò accada perché gli interessi che dipendono dai modelli di consumo esistenti per mantenere i benefici acquisiti, sono troppi. Se il 30% del pianeta sarà “protetto”, chi ne soffrirà? Non saranno certamente coloro che sostanzialmente provocano la crisi climatica, bensì gli indigeni e altri popoli locali del Sud del mondo, che non contribuiscono affatto o ben poco alla distruzione dell’ambiente. Cacciarli dalla loro terra per creare aree protette non aiuterà il clima: i popoli indigeni sono i migliori custodi del mondo naturale e una parte essenziale della diversità umana, che è una delle chiavi per proteggere la biodiversità. Dobbiamo fermare la proposta del 30%».

Ma l’ONG che difende i popoli indigeni e che, come sanno in nostri lettori, greenreport.it segue da sempre con attenzione e simpatia, sembra davvero prigioniera delle sue dispute con il Wwf quando, nonostante anche recenti studi e l’ultimo rapporto IPBES (pur citata da Survival) dicano l’esatto contrario, scrive che «Inoltre, non sembra esserci alcuna base scientifica dietro a questo obiettivo, né alcuna valutazione di quello che potrebbe essere il suo impatto sociale. Al contrario: la natura e la biodiversità finirebbero per essere ulteriormente danneggiate perché, come ormai dimostrano numerosi studi scientifici (e che nemmeno gli studi che chiedono nuove aree protette negano, ndr) , questi popoli sono i migliori custodi dell’ambiente, ed esiste un legame diretto e vitale tra diversità culturale e biodiversità. Non è un caso che l’80% della biodiversità del pianeta si trovi proprio nei territori indigeni».  E’ evidente che Survival pensa alle grandi riserve integrali quando denuncia questo modello di aree protette ed è altrettanto evidente che questo non è, per esempio, il modello attuato in Italia e in Europa, dove le riserve integrali sono solitamente una piccola parte di parchi – di solito gestiti da enti pubblici – che hanno diverse forme di accesso, fruizione e sfruttamento e tutela delle risorse. Trasformare tutte le are protette  del mondo (e in particolare quelle europee) in qualcosa di simile alle “riserve delle tigri” indiane o a un Parco dell’Africa centrale – magari gestito da una grande ONG ambientalista per sopperire la mancanza di fondi e di capacità governance di un debole, povero o inesistente governo – dove ci sono stati abusi contro le popolazioni autoctone sembra davvero una forzatura per generalizzare un dramma locale che va affrontato con decisione e che non è certo un modello da seguire.

Il 19 novembre Survival organizzerà la conferenza online “What’s in the EU Biodiversity Strategy for Indigenous Peoples and local communities?” insieme all’ Indigenous Peoples’ Center for Documentation, Research and Information (Docip) e all’ONG Fern, non contraria all’istituzione di aree protette e  che lavora per la giustizia ambientale e sociale con particolare attenzione alle foreste e ai diritti chi ci vive nelle politiche e nelle pratiche dell’Unione europea. Parteciperanno gli europarlamentari Michèle Rivasi dei Verdi/ALE, María Soraya Rodríguez Ramos di Renew Europe e Marc Tarabella dei Socialisti & Democratici, appartenenti a tre gruppi parlamentari, non certo contrari ai target proposti dalla Cbd e dall’Ue e che li hanno votati anche all’Europarlamento, e interverranno rappresentanti delle popolazioni indigene e delle comunità locali di Africa, Asia, America Latina e Russia, ONG, funzionari della Commissione europea e deputati al Parlamento europeo.

L’approccio alla conferenza è meno radicale di quello della “Bugia Verde” di Survival, infatti gli organizzatori scrivono: «Di fronte all’urgente necessità di ripristinare la biodiversità e ridurre gli effetti della crisi climatica, le istituzioni internazionali si stanno concentrando sull’estensione delle aree protette. Nella sua Strategia per la biodiversità 2030, la Commissione europea propone di trasformare almeno il 30% della terra e del mare d’Europa in aree protette. La biodiversità riceverà anche una maggiore attenzione a livello internazionale. Con l’iniziativa NaturAfrica, la Commissione promette di proteggere la natura in Africa promuovendo il ruolo degli attori non statali e dei gruppi indigeni in questo processo. Ma come saranno coinvolti i popoli indigeni e le comunità locali? Molti esempi mostrano che difendere i diritti territoriali e consentire alle comunità locali di gestire la propria terra è la migliore strategia per proteggere la biodiversità, ma l’accaparramento di terre, gli impatti umani dei progetti di conservazione e gli abusi da parte delle eco-guardie continuano a fare notizia. Ci sono quindi richieste crescenti per un cambiamento radicale nella progettazione e nella gestione dei programmi di  conservazione. Quale modello di conservazione della natura svilupperà l’Ue per il 2030?»

Quindi, in realtà il problema non è se occorre tutelare quel che resta delle nostre risorse naturali più rare e preziose, ma come e chi deve tutelarle e a vantaggio di chi e perché. In un mondo che cambia anche la vecchia concezione di protezionismo che ancora persiste è destinata a cambiare, ma questo lo sanno anche le associazioni ambientaliste più avvertite, l’onu, l’Ipbes, la Cbd e l’Unione europea  che chiedono che le Aree protette vengano amministrate meglio e in maniera partecipata e condivisa  e che lavorano attivamente con i popoli autoctoni per difendere i loro diritti alla vita, alla terra e al mantenimento del loro stile di vita e cultura.

Minority Rights Group, Rainforest Foundation UK e Survival International hanno redatto una dichiarazione per esporre obiezioni e preoccupazioni che sono in gran parte condivisibili e che vi proponiamo integralmente:

 

Le preoccupazioni delle ONG sulla proposta di raggiungere il 30% in aree protette e l’assenza di garanzie per i popoli indigeni e le comunità locali

All’attenzione delle Parti e del Segretariato della Convenzione sulla diversità biologica (CBD):

Siamo preoccupati per l’obiettivo del 30% incluso nella “bozza-zero” del Quadro Globale per la Biodiversità (“zero-draft”, Global Biodiversity Framework):  “Entro il 2030, proteggere e conservare attraverso un sistema ben connesso ed efficace di aree protette e di altre efficaci misure di conservazione su base territoriale, almeno il 30% del pianeta focalizzandosi su aree particolarmente importanti per la biodiversità”.

Sebbene siano certamente necessari impegni coraggiosi per affrontare le emergenze climatica e di biodiversità, riteniamo che questo obiettivo sia controproducente e che potrebbe consolidare ulteriormente un modello di conservazione obsoleto e insostenibile, che potrebbe espropriare delle loro terre e dei loro mezzi di sussistenza proprio le persone meno responsabili di queste crisi.

Ecco le nostre principali preoccupazioni:

L’obiettivo del 30% è stato fissato senza una valutazione preliminare degli impatti sociali e dell’efficacia della conservazione della precedente iniziativa pari al 17% in aree protette terrestri (adottato dalle Parti al CBD 2010). Le aree protette hanno causato il dislocamento e lo sfratto di popoli indigeni e di altre comunità che dipendono dalla terra, e hanno portato a serie violazioni dei diritti umani da parte delle organizzazioni per la conservazione e delle forze dell’ordine pubbliche e private. Nonostante l’attuale quadro CBD e la bozza GBF post2020 dispongano di includere negli obiettivi di conservazione globali “altre misure efficaci di conservazione su base territoriale”, l’esperienza ha dimostrato che l’opzione standard in gran parte del Sud del mondo è rimasta quella delle aree statali rigidamente protette.

Sulla base di studi indipendenti sulle zone d’importanza ecologica che con più probabilità verranno proposte per la conversione in aree protette, stimiamo che potrebbero subire gravi impatti negativi fino a 300 milioni di persone.

Gli obiettivi dell’attuale bozza GBF non contengono, per i programmi di conservazione, misure effettive a protezione delle terre, dei diritti e dei mezzi di sussistenza dei popoli indigeni e delle altre comunità che dipendono dalla terra. Questa lacuna viola le norme delle Nazioni Unite e la legge internazionale.

La proposta non riflette i risultati dello Studio di impatto globale IPBES 2019, secondo cui le aree protette esistenti “non sono ancora gestite efficacemente ed equamente”, né l’enfasi che pone sulla necessità di proteggere le terre indigene.

Riteniamo che prima di adottare qualsiasi nuovo obiettivo di conversione in aree protette:

Il GBF deve riconoscere e proteggere i sistemi di proprietà terriera collettivi e consuetudinari, e adottare garanzie rigorose e vincolanti a favore dei popoli indigeni e di altre comunità che dipendono dalla terra, che si applicheranno su tutte le aree protette nuove ed esistenti. Queste misure devono aderire agli accordi internazionali sui diritti umani e garantire i diritti alla terra, alle risorse, all’auto-determinazione e al consenso libero, previo e informato. Prima di prendere in considerazione un qualsiasi aumento delle aree protette, dovrà essere adottato un piano per l’applicazione di tali misure nelle aree protette già esistenti, e dovrà essere istituito un robusto sistema di revisione.

Dovrebbe essere svolta una valutazione indipendente dell’efficacia e degli impatti sociali delle aree protette esistenti al fine di orientare i nuovi obiettivi e le nuove norme nel GBF post2020.

Dovrebbe essere condotto e pubblicato uno studio approfondito sulle potenzialità di una maggior protezione e di un più ampio riconoscimento legale delle terre gestite dagli indigeni e da altre comunità sostenibili, per garantire la miglior conservazione della biodiversità auspicata nell’ambito del GBF post-2020. In base ad esso, il GBF dovrebbe rispecchiare il principio secondo cui la protezione e il riconoscimento delle terre gestite dai popoli indigeni e da altre comunità sostenibili costituiranno a livello locale il meccanismo principale per il raggiungimento della miglior conservazione della biodiversità.

Si dovrà fornire una giustificazione scientifica all’obiettivo del 30%. Dovrà includere una valutazione del suo potenziale di mitigazione del clima, nonché delineare dove tali aree sono previste, quali regimi di protezione saranno applicati e quali gli impatti previsti sulle persone in tali aree.

Minority Rights Group, Rainforest Foundation UK, Survival International