La medicina della conservazione aiuta a comprendere la salute dell’ecosistema e l’insorgenza delle epidemie

Buone pratiche nel nostro Paese sulla conoscenza dello stato di salute delle popolazioni selvatiche

[2 Aprile 2020]

Mai come in questi giorni, telegiornali, documentari, siti web, rimbalzi socialmediatici, incluse fake news di ogni genere, consegnano alla riflessione e all’emotività di milioni di persone un tema fino a ieri indifferente ai più: gli animali selvatici portano malattie agli uomini? Davvero tutto questo disastro è originato da un virus che stava lì dentro un pipistrello e ha deciso a un certo punto di fare un “salto” di specie? E quanti virus lo potranno fare ancora in futuro? Alle domande cariche, se non di panico, almeno di una certa tensione emotiva si aggiunge, quasi in una cornice da Day after, che molti italiani in città avvistano anatre, cinghiali, caprioli, lupi su strade e piazze fino a ieri affollate di umani distratti e freneticamente presi dalla loro indelebile, fino a ieri, normalità.

No, in effetti non è solo una questione di salto di specie: per comprendere l’origine delle epidemie, come quella chiamata Corona Virus Disease 19, bisogna confrontarsi con le nostre conoscenze in merito alla complessità ecologica nella quale quel salto e soprattutto la successiva diffusione del virus sono avvenuti.

In questo, è lecito chiedersi se e come la pressione delle attività umane, causa di fenomeni di degradazione ambientale senza precedenti, di cambiamenti climatici, di disuguaglianza sociale, abbiano condotto ai fattori predisponenti l’epidemia. Se lo stanno chiedendo in molti scienziati, in realtà ben prima degli eventi del Coronavirus, per molte altre malattie infettive “emergenti”, come l’Ebola, la SARS, la MERS, l’Influenza, ed altre ancora delle quali si occupano meno i telegiornali, solo perché non in grado di abbattere con troppa violenza il PIL dei nostri Paesi.

Se lo chiedono, gli scienziati, mediante un approccio integrato, olistico, tendente a definire il quadro generale di “One Health” attraverso apporti interdisciplinari che possono essere gli unici a garantire l’accesso alla comprensione di una tale complessità. Perché è vero che di recente alcuni studi (Jones et al., 2008, Morse et al. 2012) attribuiscono oltre il 70 % dell’origine delle malattie infettive dell’uomo emergenti agli animali, per lo più ai selvatici, ma è altrettanto vero che le stesse originano solo per effetto di relazioni complesse tra uomini, animali domestici e selvatici, che trovano spiegazione, quando riusciamo ad averla, nell’analisi di fattori quali la densità di popolazione umana, la diversità e l’abbondanza di animali selvatici, e i cambiamenti dell’ambiente messi in atto dall’uomo, primi fra tutti la deforestazione, l’espansione di pratiche agricolturali intensive, l’intensificazione della produzione zootecnica, il commercio di fauna selvatica.

Gli studi ormai individuano una valida cornice tecnico-scientifica e stimolano l’attuazione di politiche ambientali indirizzate verso una pianificazione sostenibile dei territori, in particolare, in diverse aree del pianeta, di riduzione della deforestazione e di protezione della biodiversità, affinché si attui una razionale utilizzazione dei terreni lasciando il giusto spazio alla permanenza di biodiversità, proprio come accadeva, dalle nostre parti, nei mosaici agricoli pre-industriali, e riducendo interazioni anomale tra uomini, animali allevati e animali selvatici. Questo perché ecosistemi in equilibrio possono essere determinanti nel prevenire l’insorgenza di malattie infettive emergenti o riemergenti, in essi le dinamiche di interazione tra agenti patogeni e ospiti si sviluppano “internamente” e naturalmente, come avviene di solito nelle comunità selvatiche, a discapito di interazioni anomale tra selvatici, domestici (in densità di popolazione intensive e, pertanto, innaturali) e uomini (anche questi, spesso organizzati in densità di popolazione discutibili e in abitudini consumistiche ecologicamente insostenibili).

Si tratta, se vogliamo, di una maggiore complessità del concetto di distanziamento sociale, applicato per decreto in questi giorni, è un “distanziamento ecologico”, probabilmente per millenni consolidato dalla capacità adattativa dei sapiens e dalle culture legate alla terra che hanno suggerito agli uomini, in più parti del mondo e in diverse epoche, per via transgenerazionale, atteggiamenti di “rispetto” ecologico che l’era industriale e, poi, consumistica, devono aver gettato alle ortiche, come molte altre utili eredità dei nostri padri.

Dunque i ricercatori (Di Marco et al., 2020) ci suggeriscono, raccogliendo le esperienze scientifiche oggi a nostra disposizione, che lo studio e la previsione del rischio delle pandemie e la elaborazione di strategie preventive non possa prescindere dal proseguire e ulteriormente sviluppare un approccio multidisciplinare, anzi meglio “cross-disciplinare” che includa la conoscenza dei processi socioeconomici che governano i territori, le dinamiche dei patogeni, gli aspetti della biologia e del comportamento delle popolazioni ospiti, che siano esse umane, zootecniche, o selvatiche. C’è bisogno, dunque, di comprendere a fondo quali siano i meccanismi che regolano l’insorgenza di malattie infettive e l’utilizzo dei territori, c’è bisogno di analizzare come i cambiamenti di utilizzo delle terre alterino questi meccanismi, come il comportamento degli uomini determini relazioni nuove e anche pericolose con gli animali selvatici. E l’analisi delle relazioni complesse tra la biodiversità e i rischi di malattie infettive conduce alla consapevolezza del ruolo che possono avere i programmi di conservazione nella modulazione delle malattie stesse. Data la complessità dei sistemi e delle relazioni, ovviamente, il ruolo delle popolazioni selvatiche non può essere chiarito solo con i dati relativi al numero delle specie, alla loro abbondanza, alla presenza/assenza su dati territori, ma va compreso mediante la conoscenza delle variazioni spaziali e temporali, della struttura di popolazione, delle interazioni dirette e indirette tra individui della stessa specie e di altre specie nei diversi contesti ambientali, influenzati o meno dai cambiamenti antropogenici in atto.

Si tratta, dunque, della Medicina della Conservazione, “Conservation Medicine”, termine nato negli anni ’90 proprio per dare contezza e visione della “competenza ecologica” del concetto di salute. Una disciplina emergente che studia le molteplici e complesse interazioni tra patogeni, malattie, specie ed ecosistemi, che tenta di esaminare il mondo in modo pienamente inclusivo, riunendo le materie della salute e dell’ecologia. La Medicina della Conservazione, per altro, ha riconosciuto apertamente la componente sanitaria della conservazione della biodiversità e nel suo ambito si sono affrontati per la prima volta gli elementi di analisi e gli effetti delle malattie sulle specie rare o minacciate, e la salute delle popolazioni animali all’interno degli ecosistemi.

Ma come si valuta, o meglio ancora, come si misura lo stato di salute di una popolazione animale? Probabilmente con parametri complessi, ma reperibili, per la maggior parte dei casi, quando si tratta di popolazioni di animali domestici, anagrafati, censiti, chiusi in ambiti definiti se non, il più delle volte, in stalle o stabilimenti produttivi intensivi. Le popolazioni selvatiche invece sono più difficili da monitorare, i loro areali, l’elusività tipica di molte specie selvatiche, l’inaccessibilità dei territori, la difficoltà di reperire campioni costantemente ed in numero adeguato, fanno della sorveglianza sanitaria dei selvatici una sfida di certa complessità.

In Italia, la Medicina della Conservazione, nell’applicazione inerente la sorveglianza sanitaria sulla fauna selvatica, ha trovato l’esperienza di alcuni gruppi di lavoro, accademici e non, e le sue prime esperienze applicative in alcuni parchi nazionali, impegnati nella tutela delle specie animali protette, tra l’altro, anche dalla Direttiva Habitat (92/43/CEE). Non si poteva pensare alla conservazione del Lupo, del Camoscio appenninico o dell’Orso bruno marsicano, senza prevedere ed avviare una sistematica analisi del loro stato di salute e configurare, ove possibile, un’analisi dei rischi e coerenti azioni concrete di conservazione, finanziate anche dall’Unione Europea, mediante i progetti Life Natura (Life Wolfnet, per il Lupo, Life Coornata per il Camoscio Appenninico e Life Arctos per l’Orso marsicano). Anche l’aver concepito questo approccio nell’ambito dello strumento finanziario Life rivolto alla tutela della biodiversità e non accolto nel sistema di Sanità Pubblica, inizialmente, è stato proprio significativo di un cambio di paradigma. La tutela delle popolazioni selvatiche necessita di un sistema di sorveglianza delle malattie “di per sé”, orientato proprio sulle variabili ecologiche e concepito nell’ambito delle azioni di conservazione. Questo sistema dialoga, si interfaccia costantemente, si rivolge al Sistema Sanitario Nazionale, recando contributi importanti alla visione complessiva di cui prima si diceva, attraverso il riferimento alle autorità sanitarie, agli organi di controllo della Sanità Pubblica (Servizi Veterinari ASL), e alla rete degli Istituti Zooprofilattici, ma nasce nell’ambito della tutela ambientale e si consolida nella crescente conoscenza delle variabili ecologiche che influenzano lo stato di salute delle popolazioni selvatiche (Angelucci, 2003). Il sistema, conferendo campioni in seno agli organi di Sanità Pubblica, partecipa, per altro, in modo significativo, alla necessaria informativa che ogni Stato Membro deve rimettere relativamente alle malattie degli animali selvatici presso l’OIE Office International des Epizooties – World Organisation for Animal Health.

Insomma, dai nostri parchi sono partite, negli ultimi 20 anni, numerose iniziative di monitoraggio sanitario, dapprima, con approccio tendenzialmente “passivo” ovvero opportunistico (semplice, poi, man mano, tendenti a diventare un sistema di sorveglianza sanitario (sebbene afflitto da oscillazioni prestazionali, delle quali i “più” sono legati a finanziamenti straordinari per progetti nati dalla base tecnico-scientifica e i “meno” alla scarsa sensibilità di dirigenti più inclini ad affannarsi nell’emergenza che vocati a lavorare nella prevenzione). I medici veterinari dei Parchi, pochi ancora, e non amministrativamente riconosciuti nel loro ruolo professionale, hanno plasmato i loro fondamenti formativi e i loro approcci, teorici e di campo, sulla collaborazione con i biologi, gli ecologi, i naturalisti, e hanno reso possibili alcune ambiziose esperienze di tutela sanitaria. I campionamenti effettuati nell’ambito di operazioni di cattura, su un numero significativo di orsi, la sorveglianza sanitaria su alcune colonie di Stambecco sulle Alpi, lo studio delle interazioni sanitarie del Lupo con gli altri canidi, l’enorme sforzo condotto nel monitoraggio delle malattie dei cinghiali, la verifica dello stato di salute dei nuclei di Camoscio appenninico, sono solo esempi, tuttavia espressivi di un metodo che può e deve essere consolidato, e che nei Parchi può trovare, da subito, una sperimentazione attuativa dell’ormai non più trascurabile concepimento di “One Health”.

Certo, il nostro Appennino, le nostre aree collinari, le montagne alpine, non sono certo afflitte dalle complesse interfacce sanitarie, produttive, sociali ed ecologiche createsi nel contesto della diffusione del Nipah virus in Tailandia, per il quale sono allo studio della Conservation Medicine i devastanti processi di deforestazione, l’esponenziale aumento degli allevamenti suinicoli intensivi penetrati all’interno delle foreste, il ruolo delle Volpi volanti, il contesto commerciale ad elevatissima densità demografica di Bangkok, eppure profondi cambiamenti ecologici sono in atto anche nei nostri territori e si possono osservare anche solo aprendo le finestre di casa nostra. Il profondo e, in parte, irreversibile, abbandono dei territori rurali, coltivati e utilizzati per un’economia di sussistenza (non intensiva, non legata alla grande distribuzione ma alla sopravvivenza delle nostre genti) fino a 70 anni or sono, ha avviato cambiamenti ecologici importanti, aree di rifugio “nuove” per la fauna selvatica, anche periurbane, se non ormai capillarmente penetrate nei contesti urbani, risorse trofiche consistenti, in parte naturali, o frutto di rinaturalizzazioni in atto, in parte di origine antropica, e variabili nel tempo e nello spazio. In questo quadro, comunque di certa complessità, e in costante evoluzione, l’uomo spesso innesca attività non sostenibili, a volte illegali (es. discariche abusive di sottoprodotti vegetali e animali), che deteriorano l’ambiente e generano condizioni di rischio, poiché legate ad interfacce ecologiche innaturali.

La possibilità di comprendere queste complesse dinamiche, a casa nostra, ce l’ha data proprio l’avvio di ricerche spesso originate dai programmi di conservazione della fauna. Recentissima è, per esempio, una delle prime pubblicazioni in Europa (Di Francesco et al., 2019) che mette in relazione dati sanitari ottenuti dalla cattura a scopo scientifico di lupi nel Parco Nazionale della Majella, a dati ottenuti dalla radiotelemetria GPS: un sistema innovativo, che permette di legare la presenza di una eventuale malattia proprio a quelle caratteristiche dei selvatici che meno conosciamo, cosa fanno durante il giorno, di quanto si spostano, di cosa si alimentano, dove si alimentano, se si riproducono, come muoiono e, dato che dovrebbe essere irrinunciabile per consentire un’adeguata valutazione del rischio, quanto e come vengono a contatto tra di loro e con individui di altre specie ricettive (Gilbertson et al. 2019). Anche se il Lupo non è interessato, oggi in Italia, da malattie trasmissibili all’uomo, si tratta di un modello di indagine epidemiologica, fondato su dati ecologici, che sulle popolazioni selvatiche rappresenterà una garanzia, per la loro tutela, e per il ruolo eventuale che esse avranno nei confronti delle malattie oggetto dei compiti istituzionali della Sanità Pubblica. Sulla stessa base tecnica e operativa si è lavorato per il Camoscio appenninico, per il quale l’applicazione dei radiocollari GPS su tutti gli animali rilasciati negli interventi di rinforzo della popolazione (si tratta di una specie ancora a rischio di estinzione) ha garantito la conoscenza delle variabili spazio temporali e la loro associazione a dati sanitari, fino a poco tempo fa del tutto sconosciuti per questo antico abitante delle vette appenniniche.

Questo approccio di conoscenza delle malattie attraverso la visione ecologica ha condotto anche ad altre acquisizioni rispetto non solo alla salute dei selvatici, ma anche alle interazioni tra questi e gli animali domestici, ovvero tra questi e i contesti legati ad alcune pratiche umane ecologicamente critiche. Solo per citare alcuni casi a noi vicini, un caso di tubercolosi bovina evidenziato dalla morte di un ospite occasionale del micobatterio, quale l’Orso bruno marsicano (Fico et al., 2019), un focolaio di Cimurro (Canine distemper virus) che originatosi dal cane (ceppo artico, tipico dell’animale domestico), e soprattutto dal poderoso serbatoio rappresentato dalla popolazione canina vagante, ha interessato la popolazione centro appenninica di Lupo, determinando il decesso di almeno 20 individui (Di Sabatino et al., 2014), il caso di due patogeni “riemergenti” nella popolazione abruzzese di Cinghiale, la Brucella suis e la Francisella tularensis, agente eziologico della Tularemia, correlati al rilascio di lepri a scopo venatorio, importate dall’est Europa che, decedute dopo la reimmissione in natura, possono essere state oggetto dell’attività di scavenging tipica del suide (Di Nicola & Angelucci, 2009).

Sono malattie che interessano i selvatici, le cui popolazioni, nel nostro Paese, sono di certo più abbondanti e diffuse negli ultimi tempi, malattie di cui ci sfuggono, spesso, non solo la presenza e le dinamiche di diffusione, ma anche il ruolo delle interazioni tra selvatici, domestici e uomo, in un sistema ecologico coinvolto in una continua evoluzione, in gran parte legata alle azioni dell’uomo. Possiamo ora rendere feconde queste prime esperienze, metterle a sistema, considerarle necessariamente azioni “di Stato”, necessarie alla conservazione di alcune specie, alla tutela della salute dell’ambiente in cui viviamo, irrinunciabili rispetto al contributo che possono dare alla Sanità Pubblica. E questo senza attendere un’altra epidemia. A proposito, ce n’è un’altra alle porte: non provocherà morti tra gli uomini, per fortuna, ma sarà in grado di sconvolgere la nostra economia, le vite di tanti operatori coinvolti nel settore agroalimentare, l’immagine di qualità dei prodotti italiani, la tenuta del nostro PIL. Si chiama Peste Suina Africana ed è estremamente grave e spesso letale per gli animali colpiti, e può essere causa di gravi danni alle produzioni zootecniche suine, sia direttamente a causa della mortalità, sia indirettamente a causa delle restrizioni al commercio nazionale e internazionale di suini e prodotti derivati che la presenza dell’infezione implica. Si, perché l’Asfivirus responsabile della malattia si diffonde non solo perché circola tra animali infetti: non è come il SARS-Cov-2 dei giorni nostri, ma è molto più resistente all’ambiente esterno, resta lì per un po’ e si diffonde anche nei prodotti a base di carne di maiale contaminata o lo smaltimento illegale di carcasse o sottoprodotti. La malattia è ormai già presente in 9 Stati membri dell’Unione, il nostro Ministero della Salute si sta già muovendo con la rete della Sanità Pubblica veterinaria e, sulla gestione delle malattie infettive nelle popolazioni animali domestiche, l’Italia vanta buoni primati e note capacità gestionali. Ma, come detto, non bisogna tralasciare la complessità ecologica attuale: il Sus scrofa dei nostri boschi, anzi, delle nostre campagne, delle nostre città, delle nostre spiagge, il Cinghiale, può essere infettato ed avere un ruolo epidemiologico. Saremo in grado di conoscerlo e di gestirlo, questo ruolo, solo con le opportunità multidisciplinari della Conservation Medicine.

di Simone Angelucci, Medico Veterinario Responsabile Parco Nazionale della Majella