Il Mediterraneo tra Blue Economy e Aree marine protette di carta

Wwf: l’80% degli stock ittici è sovrasfrasfruttato e la tutela del mare è fallimentare, anche in Italia

[4 Dicembre 2019]

Rappresentando solo l’1% della superficie oceanica del mondo, il Mediterraneo ospita fino al 18% delle specie marine conosciute al mondo, concentra il 15% dei traffici marittimi globali di merci, mentre l’80% degli stock ittici esaminati sono sovrasfruttati e oltre il 40% delle coste (18.400 km su 46.000) risultano in qualche modo artificializzate. Come se non bastasse il Mediterraneo presenta una delle più alte concentrazioni di rifiuti marini composta principalmente da materie plastiche: oltre 100.000 articoli in microplastica / km2 e fino a 64 milioni di particelle / km2 di rifiuti galleggianti.
Per discutere di questo è in corso – e si conclude domani – a Napoli la 21esima Conferenza delle parti della Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo alla quale partecipano delegazioni di 22 Stati: tra le delegazioni di 21 Stati: Italia, Albania, Algeria, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Israele Libano, Libia, Malta, Monaco, Montenegro, Marocco. Slovenia, Spagna, Siria, Tunisia, Turchia, e l’Unione Europea. In una nota il ministero dell’ambiente spiega che «Riduzione dei rifiuti marini, economia blu, tutela della biodiversità e delle aree marine protette, contenimento dei cambiamenti climatici, sono solo alcune della tematiche al centro dei negoziati in corso » e che «La crescente intesa ha indotto le Parti contraenti la Convenzione di Barcellona, e i suoi protocolli, ad incontrarsi a Napoli per riesaminare i progressi e adottare misure urgenti per proteggere gli ecosistemi mediterranei assediati. Discussioni e trattative sui piani regionali per prevenire e ridurre l’inquinamento del Mediterraneo, linee guida ai sensi dei protocolli Offshore, LBS e Dumping della Convenzione di Barcellona e un’ambiziosa tabella di marcia per la possibile designazione dell’area del Mar Mediterraneo come area di controllo delle emissioni di ossidi di zolfo, in linea con i termini della Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi».
Il Wwf chiede che alla COP21 di Napoli vengano stabiliti «obiettivi e traguardi chiari, condivisi e vincolanti per mettere in atto una Economia Blu Sostenibile che tuteli efficacemente il nostro mare e coinvolga le istituzioni locali, il mondo della ricerca e i settori economici»
Alla COP21 ieri è intervenuta al side event sul capitale naturale Isabella Pratesi, direttrice conservazione del Wwf Italia, Il WWF Italia, che si è soffermata sul settore della pesca proponendo un pacchetto di buone pratiche per un’alleanza tra le associazioni ambientaliste e il settore della piccola pesca che costituisce più dell’84% della flotta operante nel Mediterraneo, e il 44% della capacità di pesca, dà occupazione ad almeno il 62% della forza lavoro totale a bordo dei pescherecci e fornisce circa il 24% del valore totale delle catture nella regione.
La Pratesi ha presentato le esperienze-pilota attivate dal Wwf e in particolare «Il progetto “Pescare oggi per domani”, che ha come obiettivo lo sviluppo di sistemi di co-gestione della piccola pesca insieme a pescatori, aree marine protette e comuni locali che garantiscano la sostenibilità ecologica, economica e sociale. Il progetto è stato sviluppato dal 2017 in 20 siti pilota di Algeria, Croazia Francia Grecia, Italia, Slovenia, Spagna, Tunisia e Turchia e in Italia in particolare nella Area Marina Protetta di Porto Cesareo in Puglia, nella Area Marina Protetta della Penisola del Sinis in Sardegna e nel Golfo di Patti in Sicilia. Sono queste le best practices attivate dal Wwf nei mari italiani per creare un volano di attività economicamente ed ecologicamente sostenibili nel Mediterraneo».
Giuseppe Di Carlo, direttore della Wwf Mediterranean Marine Initiative è intervenuto al side event sulle Aree marine protette riportando gli ultimi dati ufficiali elaborati dal Wwf sullo stato di salute precaria in cui versano le risorse marine del Mediterraneo dopo decenni di eccessivo sfruttamento economico: «Il nostro mare ha già perso il 41% delle specie di mammiferi marini, il 34% della popolazione totale di pesci, e il 24% delle popolazioni di posidonia; mentre il 13% della specie di antozoi (che includono coralli e specie associate) sono a rischio di estinzione». Di Carlo ha anche centrato l’attenzione sulle «allarmanti previsioni di alcuni settori chiave del Mediterraneo che mettono a rischio un ecosistema già altamente vulnerabile: il WWF stima che da qui al 2030 i traffici marittimi crescano del 4% l’anno; mentre la pesca professionale nel Mediterraneo declinerà inesorabilmente, considerando anche che già oggi il 60% del pesce che finisce sulle nostre tavole è importato».
La Wwf Mediterranean Marine Initiative indica cinque linee di azione per una Economia Blu Sostenibile basata su ecosistemi sani e produttivi: 1. l’individuazione di strumenti finanziari e un sistema di incentivi per il sostegno di settori economici più sostenibili; 2. l’adozione di strumenti e di best practices per evitare e ridurre gli impatti dei settori tradizionali della blue economy; 3. l’implementazione di un approccio ecosistemico per la pianificazione spaziale marittima e la gestione integrata della fascia costiera; 4. l’esclusione degli impatti negativi su aree marine protette a vario titolo; 5- la promozione della partecipazione e della consultazione dei settori economici e delle comunità legati al mare.
In occasione della COP21 della Convenzione di Barcellona, il Wwf ha presentato il report “Verso il 2020: Fact check sulla tutela del Mediterraneo” nel quale denuncia che «I 21 paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno fallito sinora nell’impegno globale stabilito 10 anni fa (Obiettivo Aichi n.11 nell’ambito della Convenzione internazionale sulla Diversità Biologica) di proteggere entro il 2020 effettivamente ed efficacemente il 10% del loro mare e di fermare la continua perdita di biodiversità nella regione».
Il Panda evidenzia che «Nonostante risulti, solo sulla carta, complessivamente tutelato il 9,68% del Mare Mediterraneo, le aree marine a vario titolo protette (per norme internazionali e nazionali) che hanno propri piani di gestione sono solo il 2,48% e quelle che implementano i propri piani assicurando una gestione effettiva ed efficace sono ancora meno, l’1,27% e localizzate nella sponda nord del Mediterraneo. Se poi si passa a fare un focus su quale percentuale del Mediterraneo sia sottoposta a protezione integrale si scopre che solo lo 0,03% del Mar Mediterraneo beneficia della massima tutela».
Per quanto riguarda l’Italia, «E’ apparentemente in una buona situazione tutelando a vario titolo il 19,12% delle proprie acque territoriali (0 – 12 miglia marine) e presentando piani di gestione nel 18,04% che tutelano teoricamente i nostri mari», ma il Wwf dice che «In realtà non si discosta dallo sconfortante quadro generale descritto, considerato che la gestione viene effettivamente implementata solo nell’1,67% delle nostre acque marine».
Il Wwf chiede di «Aumentare in maniera considerevole gli investimenti e le risorse nella gestione delle aree protette e ripristinare habitat e specie marine unici minacciati dallo sfruttamento eccessivo e dagli effetti dei cambiamenti climatici globali».
Il Fact check dimostra che «Nell’ultimo decennio quasi tutti i Paesi del Mediterraneo hanno palesemente disatteso l’obbligo di creare entro il 2020 una rete adeguata di aree marine a vario titolo protette: l’analisi fatta area per area dimostra che questa rete contribuirebbe fortemente al ripristino del capitale naturale marino che si stima possa generare 5.600 miliardi di dollari all’anno, principalmente nei settori della pesca, acquacoltura e turismo».
Il rapporto sottolinea che «A distanza di quattro decenni dal suo lancio, la Convenzione e le sue Parti contraenti stanno venendo meno al loro mandato e stanno lasciando il Mediterraneo in gran parte non protetto e sfruttato eccessivamente da industrie come petrolio e gas, attività in continua crescita».
Sono 7 i Protocolli attuativi della Convenzione di Barcellona, che ancora non sono stati ratificati da tutti i 21 Paesi. L’Italia dal 1979 ad oggi ha ratificato solo 4 Protocolli (Dumping, Prevenzione dell’emergenza, Inquinamento da fonti terrestri, Aree protette e Diversità Biologica), mentre mancano ancora all’appello la ratifica dei Protocolli Offshore/Inquinamento da esplorazione e sfruttamento di idrocarburi, Protocollo sui Rifiuti Pericolosi e Protocollo sulla Gestione Integrata delle Zone Costiere. Inoltre l?italia ha disatteso gli impegni presi con la Convenzione di Barcellona e con la CBD di istituire tutte le aree marine protette previste, come dimostra il clamoroso caso dell’Arcipelago Toscano dove dal 1982 è prevista l’istituzione di una vera e propria Area marina protetta mai avvenuta.
WWF Medtrends ricorda che «L’Italia è, con la presenza di 14.000 specie stimate nelle proprie acque, uno dei Paesi del Mediterraneo più ricco di biodiversità marina. Si aggiunga che delle 8.750 specie indicate nella check list delle specie marine mediterranee, il 10% è nota esclusivamente per i mari italiani e che delle 10 specie di cetacei presenti con popolazioni nel bacino ben 8 possono essere considerate regolari nelle acque italiane.
Secondo la presidente del WWF Italia, Donatella Bianchi, «Al nostro Paese serve un salto di qualità nella tutela dei nostri mari, se davvero vuole rendere effettiva ed efficace la tutela dei 700 km di costa e dei 228mila ettari di mare tutelati, che dovrebbe essere assicurata dalle 27 Aree Marine Protette del nostro Paese. Le aree marine protette, purtroppo, continuano ad essere la parte più debole del sistema di tutela italiano: frammentate e di piccole dimensioni, con governance inefficace e finanziamenti limitatissimi. Per non dire che il nostro Paese ha ancora aperte procedure d’infrazione sulla depurazione delle acque e sulla designazione dei siti della rete Natura 2000 che inevitabilmente hanno ripercussioni a mare. Il Santuario dei cetacei “Pelagos”, la più grande area di tutela transnazionale dei mammiferi marini istituita al mondo, che da solo contribuisce ad una quota del 3,4% della superficie complessivamente a vario titolo protetta del Mediterraneo, continua ad essere un “gigante dai piedi di argilla”, senza un vero e proprio ente gestore. E’ arrivato il momento che l’Italia assuma un’iniziativa nei confronti degli altri Paesi che hanno contribuito a istituirlo nel 1999 (Francia e Principato di Monaco) per far valere nel Mediterraneo nord occidentale misure reali di regolazione del traffico marittimo che salvino i cetacei ed evitino il rischio collisioni e mettano un argine all’inquinamento marino, a partire da quello della plastica».
Di Carlo conclude: «La Convenzione di Barcellona offre ai governi mediterranei uno strumento unico e utile per lavorare insieme, tuttavia ha bisogno di un cambio di passo. La cronica mancanza di investimenti e di interesse dei Paesi rispetto alla biodiversità sta minando seriamente la capacità del nostro mare di mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici e di sostenere la nostra economia blu. Per i leader mediterranei la protezione della biodiversità deve diventare una delle massime priorità politiche, devono cioè, impegnarsi a proteggere efficacemente almeno il 30% del Mediterraneo entro il 2030».