Il cambiamento climatico provocherà un aumento delle malattie trasmesse dagli animali?

L’impatto più forte sugli habitat animali, a rischio la salute degli uomini?

[19 Novembre 2015]

Secondo gli scienziati il 75% delle malattie emergenti e riemergenti che hanno colpito gli uomini dall’inizio del XX secolo sono state trasmesse dagli animali: Aids, Sars, l’influenza aviaria H5N2 et quella suina H1N1 sono tutte  zoonosi. Barbara Han, del Cary Institute of Ecosystem Studies, ha detto che i pipistrelli, i maiali e gli uccelli sono crogiuoli per i virus Ebola, Hendra, Nipah e per le influenze aviaria e suina.  Mano a mano che gli animali selvatici perdono il loro habitat a causa della deforestazione entrano sempre più in stretto contatto con gli animali domestici e l’uomo. Anche i fenomeni climatici estremi e il riscaldamento climatico perturbano gli habitat degli animali, i loro cicli riproduttivi e I loro spostamenti migratori.

Le malattie trasmesse da vettori animali, come la malaria, la Lyme, la dengue, la febbre del Nilo occidentale e la chikungunya sono gli esempi più noti dell’effetto del cambiamento climatico sulla propagazione delle malattie. Mentre il pianeta si riscalda, le zanzare e le zecche portatrici di agenti patogeni si spostano più a nord e favoriscono la diffusione di malattie in Paesi e regioni che fino ad ora ne erano stati risparmiati, come gli Stati del nord-est degli Usa, il Canada, la Svezia, ma anche l’Italia.

La dengue colpisce circa 400 milioni di persone all’anno e, se le temperature globali aumenteranno secondo le previsioni dell’IPCC, entro il 2080 fino a 6 miliardi di persone potrebbero essere infettate da questa malattia.

La Han ha detto all’IRIN,  l’agenzia stampa umanitaria dell’Onu che ha dedicato un dossier alla questione,  che «Oltre allo spostamento di questi vettori verso regioni a latitudine e altitudine più elevate, alcuni elementi tendono a provare che le condizioni climatiche più estreme e irregolari e gli eventi climatici catastrofici come le inondazioni contribuiscono alla propagazione di queste malattie».

L’Organizzazione mondiale della sanita (Oms) spiega che «La misura degli effetti del cambiamento climatico sulla salute non può che essere molto approssimativa», ma l’agenzia dell’Onu prevede che «Circa un quarto dei 250.000 decessi supplementari provocati ogni anno dal cambiamento climatico saranno dovuti alla propagazione della malaria in nuove regioni che sono fino a qui risparmiate».

Richard Ostfeld, del Cary Institute, spiega a sua volta che «E’ però difficile dire se il numero delle malattie aumenti a causa dell’evoluzione degli schemi patologici. Alcuni elementi tendono a dimostrare che quando le malattie a trasmissione vettoriale si propagano nelle regioni del Nord, spariscono anche dalle regioni molto calde dove le temperature diventano troppo calde. D’altronde, altri elementi dimostrano che la malaria  regredisce o sparisce nelle regioni che diventano troppo calde o troppo secche. Il che potrebbe voler dire che non ci sono variazioni nette del numero di persone esposte ai rischi».

Ma è un’equazione con così tante variabili che per gli scienziati è estremamente difficile stabilire dei legami tra cambiamento climatico e malattie. Da una parte non ci sono laboratori che possono riprodurre l’ambiente della Terra  che possano permettere di realizzare esperimenti controllati. Dall’altra parte, è difficile distinguere le informazioni provenienti dal cambiamento climatico da quelle provenienti dalla distruzione dell’habitat degli animali da parte dell’uomo, perché i due fenomeni sono strettamente legati ed hanno spesso un impatto l’uno sull’altro. La deforestazione e la piantagione di specie esotiche hanno un profondo impatto sull’habitat degli animali, ma anche  l’urbanizzazione crescente  e lo sviluppo contribuiscono al riscaldamento del pianeta».

«E’ ben più complicate di quel che la gente immagina – dice la Han – Una parte della difficoltà incontrata per informare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico è dovuta al fatto che quando si affronta la complessità  si rischia di perdere l’attenzione dell’opinione pubblica.  Il fatto di semplificare il discorso   suscita dei dibattiti polarizzati in agende diverse».

E’ per questo che alcuni ricercatori hanno affrontato la discussione su questi temi con sfiducia. Qualcuno ha detto senza mezzi termini che non si poteva stabilire dei legami diretti tra la recente epidemia di Ebola in Africa Occidentale e il cambiamento climatico, contrariamente a quello che hanno riportato alcuni media.

Altri scienziati hanno invece ipotizzato che le condizioni climatiche estreme potrebbero aver avuto un ruolo nell’epidemia: i periodi di siccità, seguiti da forti precipitazioni, hanno favorito la comparsa di frutti, provocando l’avvicinamento di pipistrelli e scimmie e contribuendo alla trasmissione di malattie tra le specie. Anche la deforestazione avrebbero potuto costringere i pipistrelli ad avvicinarsi agli uomini per nutrirsi. Un’altra ipotesi è che il cambiamento climatico abbia provocato un  inaridimento delle fonti di nutrimento tradizionali costringendo la popolazione umana a cibarsi di cacciagione (una via di trasmissione della malattia), il che ha favorito la propagazione di Ebola.

Ma secondo Peter Walsh, un antropologo e biologo dell’università di Cambridge, «Esistono pochissime informazioni che sostengono l’affermazione secondo la quale il cambiamento climatico e l’urbanizzazione abbiano potuto contribuire all’emergenza di Ebola. E un buon numero di informazioni la contraddicono. La maggioranza delle epidemie è stata osservata in regioni davvero isolate e poco densamente popolate. Se esistono delle prove di una variazione stagionale  della probabilità di osservare un’epidemia, non esiste nessuna prova credibile che la probabilità di osservare un’epidemia sia aumentata a causa del riscaldamento climatico».

Però un buon numero di scienziati affermano che si può stabilire un legame tra il cambiamento climatico e la  trasmissione della malattia all’uomo. La difficoltà sta nello stabilire un legame di casualità. La Han pensa che  «E’ del tutto possibile stabilire un legame. La questione non è sapere se, ma come».

Non è sorprendente che i pipistrelli frugivori suscitino molto interesse in Australia, dove l’evoluzione del loro modo di alimentarsi, che potrebbe essere dovuto al cambiamento climatico, è stato legato alla propagazione del virus Hendra, che ha causato la morte di molti pipistrelli e di qualche uomo. Il virus Nipah, anche lui trasmesso dai pipistrelli della frutta, è stato trasmesso ai maiali e all’uomo in Malaysia ed ha provocato diversi decessi.

Raina Plowright, ricercatrice in ecologia delle malattie infettive all’università di Stato del Montana, evidenzia: «Disponiamo di prove solide che dimostrano che il cambiamento di utilizzo delle terre e la distruzione degli habitat hanno sensibilmente modificato il modo di alimentarsi dei pipistrelli frugivori – le volpi volanti – in  Australia. I pipistrelli frugivori, che in tempi normali si nutrono di nettare di eucalipto, si nutrono ormai di frutti meno nutrienti posandosi su alberi piantati in delle asce a cavallo delle zone peri-urbane ed urbane. Il cambiamento climatico ha un impatto sulla fioritura dell’eucalipto, ma non abbiamo l’algoritmo per stabilire un legame diretto tra il cambiamento climatico e i modelli di fioritura. L’interazione tra la perdita degli habitat e il cambiamento climatico complicano la situazione. Questi due grandi processi influenzano il comportamento dell’animale e la trasmissione di agenti patogeni dell’animale all’uomo, ma non comprendiamo molto i legami».

In un recente rapporto la Plowright ha scritto che solo una «cooperazione interdisciplinare e sistematica permetterà di determinare il ruolo svolto da cambiamento climatico, inquinamento e distruzione dell’ecosistema nell’emergenza delle malattie infettive. Per analogia, in un processo con una giuria, è spesso necessario presentare diversi elementi di prova per stabilire dei legami tra il sospetto e la scena del crimine, l’arma del delitto e il cellulare, per giungere a un verdetto».

In alcuni casi è più facile stabilire un legame tra cambiamento climatico e gli schemi patologici animali. Le ricerche condotte sulle farfalle monarca negli Usa hanno dimostrato come l’associazione tra cambiamento climatico  e introduzione di una specie esotica di fiori abbia influenzato il modello migratorio dei lepidotteri.

Dara Satterfield e Sonia Altizer, dell’università della Georgia, spiegano che «Le specie esotiche  de laiterons possono sopravvivere tutto l’anno nel sud degli Usa quando gli inverni sono caldi senza troppi episodi di gelo pronunciati. Il cambiamento climatico potrebbe aggravare il problema. Gli agenti patogeni dei laiterons, che normalmente muoiono sulle specie autoctone di laiterons durante gli inverni rigidi, possono ormai  accumularsi sulle piante tutto l’anno e contaminare le farfalle».

Ostfeld, aggiunge che «Altre malattie meglio studiate – come il virus della lingua blu che colpisce i montoni e  le capre ed è trasmesso da moscerini pungenti – in Europa sono in aumento a causa del riscaldamento climatico. Un altro eccellente esempio e la malaria aviaria nelle isole hawaiane. Il parassita è trasmesso da zanzare che – mano a mano che il clima si riscalda – cominciano a vivere ad altitudini più elevate  e ad attaccare delle popolazioni primitive e vulnerabili di uccelli. In questi casi precisi, il legame con il cambiamento climatico è ben stabilito».

L’influenza aviaria H5N1, comparsa in Cina nel 1997, ha provocato un panico generalizzato legato alla possibilità della comparsa di una pandemia. Kurt Vandegrift, un ricercatore che ha partecipato alla redazione dello studio “Ecology of avian influenza viruses in a changing world”, ha detto a IRIN di considerare il cambiamento climatico come «Uno dei numerosi moltiplicatori di minacce che potrebbero aver avuto un impatto sulle componenti migratorie  e che potrebbero favorire la comparsa di nuove epidemie di influenza aviaria. Il cambiamento di utilizzo delle terre si traduce in una maggiore densità di uccelli acquatici, uno stress più importante dove c’è una vicinanza maggiore con gli uccelli domestici favorirà un’accresciuta trasmissione dell’influenza nei pollai ed una trasmissione inter-specie  più elevata».

La California ha perso il 90% delle sue zone umide, il che ha provocato una diminuzione dei siti di sosta migratoria. «Questa riduzione dei siti dei siti di sosta migratoria degli uccelli acquatici si traduce in una sovra-popolazione e in un aumento del tasso di contatto che, se la trasmissione è legata alla densità, favorirà un’accresciuta prevalenza e un rischio più elevato di en venti di ricombinazione di virus come l’influenza aviaria – conclude Vandegrift – Il cambiamento climatico potrebbe avere un impatto sull’epidemiologia dell’influenza aviaria, ma non sappiamo come. Non possiamo mettere delle rotte migratorie dentro dei recinti ad ambiente controllato, quindi è molto difficile fare delle previsioni».