Ha ragione la Disney, l’antropomorfismo fa bene alla salvaguardia dell’ambiente?

[1 Aprile 2014]

Biodivers Conservation ha pubblicato lo studio “Anthropomorphized species as tools for conservation: utility beyond prosocial, intelligent and suffering species” nel quale un team cileno, britannico, statunitense e australiano ribalta alcune delle convinzioni (anche di chi scrive) sull’antropomorfizzazione (tipica della Disney, per interderci) degli animali. Secondo i ricercatori, «l’antropomorfismo è recentemente emerso in letteratura come uno strumento utile per la conservazione». Lo studio suggerisce che la tendenza delle persone a relazionarsi di più con gli animali che hanno una somiglianza con gli esseri umani (antropomorfismo) potrebbe contribuire a migliorare il sostegno dell’opinione pubblica ai progetti di conservazione della natura, anzi, l’antropomorfismo sarebbe addirittura trascurato come potente strumento per la promozione di specie di “basso profilo” che sono o in via di estinzione o che richiedono urgente attenzione.

Attualmente l’antropomorfismo conservazionista i limita agli animali intelligenti e sociali, come gli scimpanzé, gli orsi polari ed i delfini. Secondo la ricerca, «questo implica che le altre specie non sono degne di conservazione perché non sono come gli esseri umani nel modo “giusto”». Tuttavia, se gli ambientalisti fossero  più consapevoli di come le persone costruiscono significati antropomorfi sulle specie e come si impegnano per le specie le cui caratteristiche secondo loro hanno un valore le cose potrebbero cambiare.

E’ noto che le persone possono attribuire personalità od emozioni alle specie che sono loro più vicine,  come animali da compagnia o anche animali selvatici “gradevoli”, quindi sfruttando il nuovo animalismo (che rimane però molto “occidentale”) si potrebbero creare programmi di salvaguardia che parlino alla gente  attraverso le loro aspettative culturali e connessioni emotive.

Uno degli autori dello studio, Diogo Verissimo, del Durrell Institute of Conservation Ecology  dell’università del Kent, spiega che «l’antropomorfizzazione delle specie è un modo comune per le persone di relazionarsi con altre specie, ma come strumento di conservazione è sotto-utilizzato e non è utilizzato come un modo per promuovere efficacemente le relazioni tra le persone e la natura attraverso programmi di conservazione. Per esempio, nonostante ci siano alcune limitazioni all’utilizzo dell’antropomorfismo, le aspettative non appropriate per il comportamento degli  animali o delle specie per le quali ci sono o stereotipi sociali negativi da essere human-like, c’è la necessità di intensificare la ricerca nel marketing e nelle scienze sociali che porterà ad utilizzare più efficacemente l’antropomorfismo come strumento della conservazione».

La principale autrice,  Meredith Root-Bernstein, che lavora sia per la Pontificia Universidad Catolica de Chile e per l’università di Oxford, ha sottolineato che «gli scienziati da molto tempo sono cauti sull’antropomorfismo, perché è stato visto come un driver di ipotesi non scientifiche sul comportamento animale. Ma, come ambientalisti possiamo guardare ad esso come una sorta di ingenua teoria popolare delle somiglianze tra l’uomo e tutte le altre specie. Questi modi popolari di rapportarsi al mondo naturale sono potenti e dobbiamo cercare di capirli e lavorare con loro».

Insomma, la protezione dell’ambiente dovrebbe imparare da Walt Disney, e Bambi potrebbe diventare il simbolo del nuovo ambientalismo antropomorfo per aprire la strada all’accettazione anche di creature meno gradevoli, trasformandole da “estranei” ad “amici”.

La Root-Bernstein dice: «Si tratta di una visione utilitaristica? Penso che la domanda sia: cosa è l’antropomorfizzazione? Cosa si vuole comunicare con essa? Non c’è una definizione di insieme dell’antropomorfismo. Le qualità umane attribuite agli animali sono su una scala di intensità. Può prendere la forma delle immagini di animali con caratteristiche più simili all’uomo, come gli occhi rotondi sul davanti della  faccia. Oppure potrebbero includere animali che danno emozioni che le persone sperimentano, come la felicità o la tristezza. Anche raffigurante animali che indossano abiti umani o che si impegnano in attività umane evoca sentimenti umani di empatia, qualcosa che l’industria dell’intrattenimento ha da tempo sfruttato in film come “Every Which Way But Loose”, un film di avventura del 1978 con Clint Eastwood e il suo assistente orangutan, “Clyde”».

Un precedente studio pubblicato su Ecopsychology ha trovato che gli zoo che fanno più confronti con gli esseri umani raccolgono più finanziamenti per aiutare gli animali e la Root-Bernstein è convinta che «Il modo di utilizzare l’antropomorfismo dipende dal pubblico e dalle circostanze. Negli zoo, per esempio, spesso si ha l’opportunità di vedere gli animali che fanno cose che fanno parte della loro routine quotidiana, che possono essere paragonate alle attività quotidiane umane, come orari, faccende e pasti. Questo tipo di antropomorfismo potrebbe rendere più facile comunicare l’esperienza di essere un’altra specie. Gli zoo utilizzano tradizionalmente negozio di oggetti regalo  come giocattoli ed animali di peluche come una sorta di “take-home” per la sensibilizzazione, in quanto questi giocattoli possono suscitare empatia integrando le funzionalità di umani e non-umani».

Però Kim-Pong Tam, uno scienziato sociale dell’ Hong Kong University of Science and Technology, si chiede su Mongbay.com: »Ma solo perché possiamo usarlo, dovremmo? La ricerca ha dimostrato che l’antropomorfismo promuove comportamenti di conservazione, migliorando il senso personale di connessione con la natura. Ma gli effetti dell’antropomorfismo non sono sempre positivi. In Giappone, negli anni ’70,  migliaia di procioni sono stati importati dal commercio di animali domestici, dopo che una serie di cartoni animati aveva reso popolari questi animali con la faccia da bandito.

Quando i procioni hanno reagito come gli animali selvatici che erano invece dei simpatici e ben educati personaggi dei cartoni animati, molti dei loro disincantati proprietari se ne sono disfatti. L’improvviso rilascio di procioni non nativi all’aperto ha reso necessario un costoso programma di eradicazione a livello nazionale che non è riuscito a liberare l’isola di questa specie invasive. Da allora i procioni si sono diffusi in tutto il Giappone, causando notevoli danni alle coltivazioni ed agli antichi templi. Un’altra conseguenza non voluta dell’antropomorfismo può sorgere quando l’empatia per i singoli animali non si g estende ad una serie di specie. Questo può creare conflitti nei giardini zoologici dove i programmi di allevamento o i bilanci richiedono l’abbattimento degli animali, una situazione che di recente ha suscitato l’indignazione pubblica quando è stata fatta l’eutanasia ad un giovane giraffa a causa di un surplus nel branco dello zoo di Copenhagen».

Un altro esempio può essere degli animali che diventano simboli o mascotte di una comunità, causando ricadute meno favorevoli su altre specie.  Mongbay fa l’esempio dell’amazzone imperiale (Amazona imperialis ) il pappagallo che figura nella bandiera dell’’isola caraibica di Dominica, diventato simbolo dell’orgoglio e dello “stile” nazionale mentre la sua specie sorella, l’amazzone collorosso (Amazona arausiaca), è vista come una concorrente immeritevole. Una disparità di status  che ha portato ad una minore tutela per il pappagallo che rende meno orgogliosi i dominicani, quello che in termini antropomorfici/disneyani, si potrebbe chiamare “effetto sorellastra brutta”.

Ma la  Root-Bernstein ribatte: «Non stiamo dicendo che non si deve essere cauti sull’utilizzo dell’antropomorfismo. Stiamo dicendo che più si conosce, meglio si può utilizzare. Spero che il lavoro dei ricercatori aiuterà a capire perché gli ambientalisti che potrebbero voler utilizzare diverse forme di antropomorfismo in diverse circostanze, e come scegliere meglio tra i tipi di antropomorfismo».

Anche Will Turner, chief scientist di Conservation International (un’associazione spesso criticata per il suo approccio troppo conservazionista/animalista a scapito delle comunità indigene) è convinto che l’antropomorfismo possa essere molto utile alla conservazione delle specie: «Per me il problema non è tanto di trasmettere il fatto  che gli animali hanno qualità umane, tanto quanto che si tratta di usare la lente umana  per aiutare le persone, si riferisca, in primo luogo, anche ad altre specie.  Anche il più empatico tra noi deve usare una lente umana».