Gli ecosistemi da proteggere assolutamente per salvarci dal cambiamento climatico

Foreste pluviali, torbiere e mangrovieti da salvare (ma ci sono habitat anche in Italia)

[22 Novembre 2021]

Secondo lo studio “Mapping the irrecoverable carbon in Earth’s ecosystems”, pubblicato recentemente su Nature Sustainability da un team internazionale di ricercatori guidato da Monica Noon  di Conservation International,  le riserve naturali di carbonio per evitare il riscaldamento del clima sono stoccate in una piccola percentuale dei territori della Terra. Infatti, gli scienziati hanno scoperto che «Metà del “carbonio irrecuperabile” della Terra – definito come carbonio che, se emesso nell’atmosfera, non potrebbe essere ripristinato entro il 2050 – si trova solo nel 3,3% della superficie terrestre. Il carbonio in queste riserve è equivalente a 15 volte le emissioni globali di combustibili fossili rilasciate nel 2020».

La maggior parte di questo carbonio si trova nelle torbiere, nelle mangrovie e nelle foreste vetuste in tutti i continenti (anche in Italia)  e lo studio avverte che «Se questi ecosistemi dovessero essere degradati o distrutti a causa dell’attività umana, il loro carbonio verrebbe emesso nell’atmosfera, impedendo di fatto all’umanità di limitare il riscaldamento globale a meno di 1,5 gradi Celsius, il punto di riferimento per un clima “sicuro” fissato dall Accordo di Parigi del 2015».

Nel 2020 lo stesso team di autori introdusse il concetto di carbonio irrecuperabile nell’innovativo studio “Protecting irrecoverable carbon in Earth’s ecosystems”, pubblicato su Nature Climate Change, questa nuovo studio fa fare un passo avanti alle loro scoperte, mappando esattamente dove si trova questo carbonio in tutto il mondo e fornendo ai responsabili politici la visione più chiara mai vista sulle aree che hanno più bisogno di essere protette ed assume ulteriore importanza dopo il mezzo flop della COP26 Unfccc di Glasgow e in previsione della Conferenza delle pati della Convention on biological diversity.

La Noon ricorda che «Siamo in un momento cruciale per l’azione climatica: la scienza e le soluzioni sono qui, così come l’urgenza. Mentre i leader mondiali si riuniscono attorno a un obiettivo comune per proteggere il 30% del pianeta entro il 2030, la nuova mappa del carbonio irrecuperabile potrebbe aiutare i governi a concentrare i loro sforzi sugli ecosistemi che sono fondamentali per mantenere un clima stabile».

La buona notizia è che quasi un quarto del carbonio irrecuperabile del mondo si trova già all’interno di aree protette e Conservaton International evidenzia che  «Aumentare di appena il 5,4%  la quantità di territorio sotto protezione nelle aree chiave impedirebbe a un enorme 75% del carbonio irrecuperabile della Terra di essere rilasciato nell’atmosfera. Molte delle riserve di carbonio irrecuperabili del mondo si sovrappongono a luoghi contenenti alte concentrazioni di biodiversità, che trarrebbero vantaggio anche da protezioni più forti».

La Noon aggiunge: «La nostra ricerca dimostra che proteggere una porzione relativamente piccola di territorio può garantire la maggior parte del carbonio irrecuperabile. Mobilitare le risorse per conservare queste aree può avere enormi ritorni per il clima, la biodiversità e il benessere umano. I governi devono essere strategici quando creano nuove aree protette, rafforzando anche le tutele legali in quelle esistenti».

Per capire come il suolo e la biomassa possono recuperare i gas serra dopo i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, gli scienziati hanno utilizzato i dati più recenti, inclusa un’analisi di oltre 10.000 campioni di carbonio forestale e hanno scoperto che «Il carbonio irrecuperabile si estende su 6 dei 7 continenti, compresi i vasti depositi in Amazzonia, nel bacino del Congo, nelle isole del sud-est asiatico, nel Nord America nordoccidentale, nel Cile meridionale, nell’Australia sudorientale e in Nuova Zelanda».

In Amazzonia vivono  30 milioni di persone, tra le quali 350 popoli indigeni, la foresta pluviale fornisce l’habitat per una specie conosciuta su 10 sul pianeta e produce quasi un quarto dell’acqua dolce del mondo.Inoltre, immagazzina più del 20% di tutto il carbonio irrecuperabile all’interno dei suoi alberi e del suolo, più di qualsiasi altra regione della Terra.

Uno degli autori dello studio, Juan Carlos Ledezma, tecnico di Conservation International per li programmi americani, ricorda che «Le foreste vetuste dell’Amazzonia sono ecosistemi estremamente ricchi di carbonio perché sono state in grado di sequestrare il carbonio per decenni o addirittura secoli e crescono tutto l’anno.  Alcune delle più grandi riserve di carbonio irrecuperabile dell’Amazzonia si trovano nell’Igapó, foreste stagionalmente allagate lungo le rive del Rio delle Amazzoni. Per un massimo di 6 mesi all’anno, queste foreste vengono sommerse da diversi metri d’acqua, che intrappolano il carbonio nel suolo, dove può accumularsi nel tempo».

Il problema è che la deforestazione accelerata negli ultimi anni dopo l’arrivo al potere in Brasile del presidente neofascista Jair Bolsonaro sta spingendo l’Amazzonia verso un punto di non ritorno, dopo il quale perderà la capacità di produrre piogge, trasformandosi gradualmente in una savana secca. Finora è stato deforestato circa il 15% dell’Amazzonia; il punto di non ritorno potrebbe verificarsi se venisse abbattuto il 25% della foresta. Secondo gli scienziati, con gli attuali tassi di deforestazione, ci si potrebbe arrivare in soli 10-15 anni. E Ledezma fa notare che «L’aumento della deforestazione accelererà il cambiamento climatico, alimentando temperature più elevate e una minore umidità in Amazzonia. Questo potrebbe prosciugare questa foresta pluviale e rilasciare il carbonio che contiene. Inoltre, le foreste secche hanno maggiori probabilità di prendere fuoco, il che rilascerebbe ancora più carbonio. È un pericoloso ciclo di feedback, che dobbiamo evitare.

Il delta del Niger, in Africa, ha il tratto di mangrovie contiguo più esteso al mondo, ricco di fauna selvatica e specie marine. M il suo  vero tesoro è sepolto in profondità nel terreno delle sue paludi. Cone spiega una delle autrici dello studio, Allie Goldstein di Conservation International, «Molto del fango nelle foreste di mangrovie non vede la luce del giorno da decenni o addirittura secoli. Se lasciato indisturbato, il carbonio nei sedimenti del suolo è bloccato. Le mangrovie coprono solo una frazione della superficie terrestre, ma quel che manca loro in quantità lo compensano in termini di qualità, trattenendo la più alta densità di carbonio irrecuperabile di qualsiasi altro ecosistema».

Nel solo delta del Niger, 240 milioni di tonnellate di carbonio irrecuperabile sono stoccate all’interno del fitto groviglio di alberi e suolo che compongono questa foresta costiera. Insieme a questi benefici climatici, le mangrovie forniscono habitat essenziali per le specie marine e possono fungere da cuscinetto per le comunità costiere, proteggendole dalle mareggiate e dall’innalzamento del livello del mare. Ma, nonostante la loro importanza, le mangrovie lungo il delta del Niger affrontano una pressione crescente da parte dell’industria estrattiva, che ogni giorno esporta 1,41 milioni di barili di petrolio da questa regione. Oltre alla deforestazione provocata per realizzare gli impianti di trivellazione, campi petroliferi, strade e altre infrastrutture legate alla produzione estrattiva, il petrolio si riversa frequentemente nella foresta di mangrovie, inquinando le coste e danneggiando gli alberi.

Poi c’è la poverissima, ma ricchissima di risorse, Papua Nuova Guinea, che nei suoi suoli e foreste stocca  3,9 miliardi di tonnellate di carbonio irrecuperabile, il che, secondo la Noon,  la rende una «Riserva di carbonio wall-to-wal. La maggior parte del carbonio del Paese è stoccato nelle sue torbiere. Questi ecosistemi delle zone umide sono costituiti da piante in decomposizione impregnate d’acqua che hanno accumulato carbonio nel corso dei secoli».

A livello globale, le torbiere contengono più di 39 miliardi di tonnellate di carbonio irrecuperabile, che viene accumulato e imprigionato nel suolo. Tuttavia, proprio come le foreste allagate dell’Amazzonia, queste zone umide sono estremamente vulnerabili ai cambiamenti di umidità. La Nooo spiega ancora: «Le torbiere sono superstar del clima, ma affrontano una serie di minacce che potrebbero far loro rilasciare il carbonio che hanno immagazzinato. Nella maggior parte dei casi, le torbiere vengono prosciugate per trasformare la terra in una fertile area agricola per la produzione di palma da olio o estratte come fonte di carburante».

E nell’ultimo decennio almeno 4 miliardi di tonnellate di carbonio irrecuperabile sono già andate perse a causa dell’espansione agricola o degli incendi, mentre i tassi di deforestazione continuano ad aumentare in tutto il mondo. Per la Noon, «Oltre a creare nuove aree protette, è essenziale riconoscere i diritti alla terra dei popoli indigeni. Globalmente, i popoli indigeni hanno dimostrato di essere alcuni dei migliori custodi della natura; le loro terre mostrano meno declino e inquinamento delle specie e risorse meglio gestite. Rafforzare i diritti fondiari degli indigeni è un passo fondamentale verso la protezione degli ecosistemi mondiali e del carbonio che immagazzinano».

Attualmente, 47 miliardi di tonnellate di carbonio irrecuperabile, più di un terzo del totale, si trovano all’interno delle terre appartenenti per legge a dei popoli indigeni e a comunità locali. Gli autori dello studio dicono che «E’ probabile che ci sia ancora più carbonio irrecuperabile situato su terre indigene e comunitarie senza status legale». Ma Ledezma fa notare che «Tuttavia, il fatto di trovarsi su terre indigene non garantisce sempre la conservazione del carbonio irrecuperabile. Nella sola Amazzonia, quasi la metà delle foreste intatte si trova all’interno dei territori indigeni, il che rende i popoli indigeni partner cruciali nello sforzo di proteggere il carbonio irrecuperabile. Tuttavia, molte comunità mancano delle risorse e degli incentivi di cui hanno bisogno per respingere la pressione di trasformare le foreste in fattorie o aree minerarie. I governi devono fornire maggiore sostegno alle comunità indigene, rafforzare il riconoscimento legale delle loro terre e riconoscere formalmente il ruolo cruciale svolto dalle popolazioni indigene nell’aiutare a combattere il cambiamento climatico».

La Goldstein conclude: «L’espansione della protezione per le terre con alte concentrazioni di carbonio irrecuperabile, oltre a sostenere le misure di conservazione indigene e guidate dalla comunità, è fondamentale per i Paesi per raggiungere i loro obiettivi climatici e di biodiversità. Questo è uno scenario raro in cui abbiamo il tempo di prevenire il disastro ambientale prima che accada. Questa è la nostra generazione di carbonio da risparmiare e il modo in cui scegliamo di andare avanti come comunità globale determinerà il nostro destino climatico».