Coltivare alghe per sfamare il mondo e difendere il clima e la biodiversità

Safe Seaweed vuole fornire norme e standard per un’industria in grande crescita ma poco considerata

[19 Marzo 2021]

La Safe Seaweed Coalition è una partnership globale Istituita da Lloyd’s Register Foundation, United Nations Global Compact e Centre national de la recherche scientifique – CNRS  per supervisionare la sicurezza e la sostenibilità dell’industria delle alghe sempre più in crsscita, supportata dall’investimento dei nostri tre principali partner.

Le alghe sono il settore di produzione alimentare in più rapida crescita al mondo, con, dal 005 al  2015,  un valore annuo di 9 miliardi di dollari. Le dimensioni dell’industria delle alghe sono raddoppiate da quando il mondo ha iniziato a riconoscere il ruolo che le alghe possono svolgere nel garantire cibo per una popolazione globale in espansione. Ma secondo la Safe Seaweed Coalition questo è solo l’inizio: «Entro il 2050, i nostri oceani hanno il potenziale per produrre 15 volte più alghe, assicurando occupazione a milioni di persone in ogni continente, assorbendo carbonio per aiutare a combattere la crisi climatica e fornendo nutrimento essenziale per soddisfare le esigenze della popolazione mondiale in crescita».

Il coordinatore scientifico di Safe Seaweed, il biologo del CNRS Philippe Potin, spiega che l’obiettivo della coalizione è quello di «Federare e sensibilizzare a livello mondiale i protagonisti della filiera delle alghe – produttori, industriali, ricerca, gouvernance, associazioni – per creare delle norme e degli standard internazionali che rispondano agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare “Vita acquatica <” e “Fame zero”».  Per farlo, la coalizione si baserà sul Seaweed manifesto, redatto dalla Lloyd’s Register Foundation e da un gruppo di esperti che propone un piano di azione concreto».

La coltivazione di alghe si potrebbe rivelare un vantaggio per il pianeta. Come spiega Potin in un’intervista sul sito del CNRS, «In effetti, dal lato ambientale, una foresta di alghe, che siano naturali o coltivate, può catturare altrettanto carbonio che la sua stessa superficie equivalente di foresta amazzonica. Le alghe servono anche a preservare gli ecosistemi marini assorbendo l’azoto in eccesso e prevenendo la proliferazione di alghe tossiche. Per quanto riguarda il cibo, il loro addomesticamento è piuttosto recente. Risale dai 60 ai 70 anni in Asia, dove alcuni Paesi come il Giappone o la Corea hanno studiato il ciclo di vita delle alghe per sviluppare la loro acquacoltura. Mentre i Paesi asiatici utilizzano principalmente le alghe per il cibo, in Occidente la loro coltivazione è presente principalmente nell’industria per estrarre composti gelificanti. Oggi l’acquacoltura di alghe aumenta dell’8% all’anno in tutto il mondo e rappresenta più della metà dei volumi di produzione dell’acquacoltura marina».

Vista nel suo insieme e su scala globale, la redditività delle coltivazioni di alghe è molto varia e bassa, soprattutto nei paesi del Sud-est asiatico e dell’Africa orientale, e le popolazioni che le coltivano sono spesso povere. In Europa la produzione è limitata perché il consumo è basso e le alghe vengono utilizzate soprattutto come integratori alimentare, con effetti benefici  sul microbiota intestinale. Potin  fa notare: «Anche se sembra impossibile nutrire l’intero pianeta con le sole alghe, i loro contributi sono comunque molto interessanti, soprattutto per Paesi come l’India con una grande popolazione e una cultura vegetariana». Sullo sviluppo della produzione locale di alghe puntano molto l’Onu e la Fao «Perché – spiega ancora Potin  – con i limiti della disponibilità di terra coltivabile, l’oceano – che rappresenta il 70% della superficie del nostro pianeta – si afferma come ambiente chiave. Gli studi hanno dimostrato che per fornire alla popolazione mondiale la quantità di alghe che mangia un giapponese medio, dovrebbe essere utilizzato solo lo 0,3% degli oceani».

Attualmente, un migliaio di organizzazioni – produttori, ONG, strutture di sviluppo africane, gruppi di produttori di alghe del sud-est asiatico – sono pronte ad aderire alla Safe Seaweed Coalition. Perfino una gigantesca multinazionale come  Nestlé ha bisogno della tracciabilità sulla sua materia prima e la coalizione intende mettere in atto standard che garantiscano la sicurezza e l’etica del settore. Inoltre, Global Compact dell’Onu promuoverà l’adozione di questi regolamenti e standard da parte dei vari Stati.  Tutti questi standard saranno studiati e definiti durante tavole rotonde tematiche: alcune i sulla standardizzazione dei contaminanti nelle alghe, altre sulle condizioni di lavoro specifiche di ciascuna regione del mondo,,  il tutto in base a precisi pareri scientifici forniti dal CNRS.< attraverso la Station biologique de Roscoff, specializzata nel campo delle alghe.

La Lloyd’s Register Foundation  ha investito  3,5 milioni di euro nella Safe Seaweed Coalition, il 20% dei quali andrà al CNRS per  la gestione e l’80% per studi, gruppi di lavoro, formazione e ricerca a livello globale. Il CNRS si avvarrà anche dell’European Marine Biological Resource Centre che si occupa di biodiversità marina e dei suoi modelli biologici, che raggruppa una rete di istituzioni marine dell’Ue e dei Paesi associati, coordinata dalla Sorbonne Université e dall’Institut des sciences biologiques del CNRS et inscrite au sein de la feuille de route nationale des infrastructures de recherche.

Potin conclude tutto questo lavoro scientifico «Renderà i modelli marini accessibili alla ricerca e  consentirà di garantire l’accesso alle risorse genetiche per fornire nuove varietà di alghe, ma anche di contribuire alla loro conservazione mentre il cambiamento climatico sta causando il declino delle loro popolazioni naturali. L’obiettivo attraverso questa infrastruttura sarà quello di garantire la conservazione dei semi di alghe locali, in particolare attraverso un sistema di criobanca, per renderli accessibili ai produttori che potranno moltiplicarli e distribuirli».