Lo studio del Centre on regulation in Europe presentato a Roma da Utilitalia

L’acqua in Italia è già pubblica: serve una gestione efficiente, al di là dell’assetto proprietario

Ogni anno la rete perde 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua potabile: un’emorragia contro la quale occorrono investimenti, che iniziano finalmente ad arrivare. Ma una pdl in discussione in Parlamento minaccia di stravolgere il settore

[19 Giugno 2019]

Secondo gli ultimi dati Istat disponibili in materia, l’Italia – che a causa dei cambiamenti climatici ha circa il 20% del proprio territorio a rischio desertificazione – spreca 4,5 miliardi di metri cubi di acqua potabile all’anno a causa delle dispersioni di rete. Si tratta di un fatto, come lo è la percentuale di popolazione italiana che già oggi risulta servita da soggetti pubblici o in maggioranza pubblici: 97%. Proprietà pubblica o privata, dunque? La ricerca condotta dal Centre on regulation in Europe (Cerre) e presentata oggi a Roma da Utilitalia mostra con chiarezza che l’assetto non è importante. Ciò che conta è che il servizio sia efficiente, efficace e soddisfacente per i cittadini, con standard di qualità elevati e omogenei in tutte le aree del Paese, anche perché l’acqua in Italia – è bene ricordarlo – è già pubblica:  da ormai un quarto di secolo la Legge 36/94 “Galli” ha profondamente innovato la normativa relativa al settore delle risorse idriche, stabilendo che tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e il consumo umano è prioritario rispetto agli altri usi. Quando si parla di “pubblico” o “privato” in ballo c’è in realtà la gestione del servizio, alimentando spesso un dibattito convulso che confonde le acque.

È la stessa acqua torbida che gira attorno alla proposta di legge che il Parlamento sta discutendo – la pdl Ac52 avanzata alla Camera da Federica Daga (M5S) –, che mira a rivedere in modo significativo il sistema idrico al grido di “acqua pubblica”, ma potrebbe finire semplicemente per togliere stabilità al comparto e creare ulteriori incertezze per il futuro in un settore che abbisogna urgentemente di investimenti per recuperare efficienza.

«Il lavoro del Cerre – spiega il direttore generale di Utilitalia, Giordano Colarullo – evidenza i rischi connessi a un dibattito sul tema del servizio idrico che non entra a pieno nel merito delle questioni. L’acqua in Italia è sempre stata pubblica e sempre lo sarà. Riguardo all’assetto proprietario del gestore, poco importa la sua natura, ma al contrario è fondamentale il livello di efficienza, insieme alla quantità e alla continuità di investimenti che è in grado di garantire».

Al proposito dalla ricerca del Centro emerge innanzitutto come l’assetto proprietario non sia fondamentale.  Quando si prende in considerazione la partecipazione del pubblico al settore idrico, è importante mettere in evidenza che la proprietà pubblica dei beni non implica necessariamente la gestione pubblica dei servizi, né il loro finanziamento pubblico con la tassazione generale. Indipendentemente da una gestione pubblica o privata, gli obiettivi principali del sistema idrico comprendono l’affidabilità dell’approvvigionamento di acqua, i servizi igienici e sanitari, l’efficienza operativa, garantire l’accessibilità economica, la salvaguardia dell’ambiente e la conservazione della risorsa. La principale caratteristica economica del settore idrico, spiega lo studio, è la dipendenza da un’infrastruttura fissa (gli acquedotti), che non è di proprietà del gestore, ma data in concessione dallo Stato. La condizione della rete è fondamentale per comprendere la capacità del sistema idrico di raggiungere i target e gli standard qualitativi adeguati al soddisfacimento dei cittadini. «Per questo – argomenta Sean Ennis, direttore del Cerre – diventa un tema centrale riuscire a garantire adeguati investimenti nelle infrastrutture. In base alla necessità di finanziare gli investimenti per le infrastrutture, il rapporto propone degli scenari a seconda della proprietà: se si intende coinvolgere il privato, è necessario garantire un’adeguata copertura dei costi del capitale; al contrario, se è il pubblico a dover investire sulla rete, potrebbe dover ricorrere in maniera più massiccia sulla fiscalità generale».

Al proposito Utilitalia stima che l’impatto della pdl Daga ammonterebbe a 15 miliardi di euro (una tantum), cui andrebbero aggiunti i 5 miliardi l’anno previsti per gli investimenti, con finanziamento a carico della fiscalità generale, e andando a sconvolgere l’assetto che ha portato a miglioramenti significativi nel settore proprio negli ultimi anni: dieci anni fa erano fermi a 30 euro lordi ad abitante, mentre oggi viaggiano verso quota 45.

Come ricorda anche il Cerre, infatti, una regolazione indipendente può stimolare gli investimenti nel settore idrico, sia in presenza di società pubbliche che di privati. Com’è accaduto in Italia. «Dopo decenni di investimenti insufficienti dovuti alla gestione diretta dei Comuni – ricorda Colarullo – finalmente negli ultimi anni il nostro Paese, anche grazie all’ingresso del sistema idrico nell’Autorità per l’energia (Arera), si è messo in moto secondo una logica industriale e ha iniziato a colmare il gap infrastrutturale accumulato nel tempo. In Italia serve una Strategia idrica nazionale che assuma un orizzonte di investimenti almeno decennale, anche per far fronte a fenomeni climatici sempre più estremi. Soprattutto nel sud e nelle isole, sarebbe importante destinare le risorse finanziarie disponibili alla costruzione di serbatoi, a nuovi approvvigionamenti, al riutilizzo delle acque reflue, alla riduzione delle dispersioni e alle interconnessioni tra acquedotti. Al contrario si rischia di impegnare fondi pubblici per una riorganizzazione del settore che potrebbe allontanarci dal conseguimento di questi obiettivi».