Europa, Grecia, Iran: psicologia e crisi nel ruolo del nostro Paese

L’insostenibile leggerezza dell’essere italiani

La percezione dell’Italia e lo scacchiere internazionale, secondo il grande psicanalista Luigi Zoja

[16 Luglio 2015]

Nel bene e nel male, nel mondo globalizzato di oggi l’Italia si trova circoscritta dai confini della propria leggerezza. Gli ultimi e più importanti eventi di grande spessore internazionale – la crisi greca ed europea, l’accordo sul nucleare iraniano – sembrano confermare questa sensazione, con l’Italia come presenza defilata o del tutto assente.

La Grecia si è vista costretta ad approvare stanotte il primo, durissimo pacchetto di misure “concordato” all’interno di un Eurosummit in cui è stata schiacciata dagli altri partner. Nonostante il premier Alexis Tsipras abbia ricevuto, per sua ammissione, l’appoggio «di Francia, Italia, Cipro e Austria», il nostro Paese non ha inciso sulle trattative: questo ruolo è spettato essenzialmente ai tedeschi e ai cugini d’Oltralpe. Il successivo siparietto in cui il presidente Matteo Renzi giustifica il proprio ritardo a una conferenza Onu affermando “Scusate il ritardo, ma ho passato la notte a salvare l’euro” non ha migliorato la situazione.

Al tavolo delle trattative che hanno appena portato all’accordo nucleare con l’Iran, invece, l’Italia neanche era seduta; Federica Mogherini non rappresentava il Paese ma l’Ue, e del gruppo dei 5 + 1 l’Italia non ha mai fatto parte, nonostante i suoi storici e profondi rapporti con l’Iran avrebbero giustificato il suo coinvolgimento. Com’è giunta la seconda potenza industriale d’Europa a vivacchiare all’interno di una sostanziale indifferenza, felicemente ricambiata dai partner internazionali? Per indagarne le radici più profonde ci siamo rivolti allo psicanalista di fama mondiale Lugi Zoja, che ha recentemente trattato questi temi all’interno della conferenza all’Expo 2015 “Condividere: non solo le ricchezze, ma i problemi collettivi“.

L’italiano medio – con qualche forzatura stereotipata ma anche con qualche fondamento – è percepito nel mondo come una quintessenza della leggerezza: il più elegante, il più attento all’apparenza, ma spesso il meno affidabile nella sostanza. Per quali meccanismi?

«All’inizio del 1500 un manuale di comportamento percorse l’Italia e poi l’Europa (pare che il re di Francia lo facesse leggere alla sua corte), influenzandole come pochi libri hanno fatto nella storia. Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione non insegnava a essere artisti o geni: il Rinascimento produceva da sé una concentrazione di creatività come quasi mai si è vista. Spiegava però come esercitare quelle qualità, e in generale come essere personaggio-modello, con elegante distacco: più precisamente, con sprezzatura. Una qualità, diceva l’autore, “… che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”. Questo stile per cui anche le maggiori qualità era scontate e non meritavano attenzione ha costituito un “capitale sociale” del Paese; all’estero lo apprezzavano come qualità italiana. Ai nostri giorni invece è visibile una degenerazione. È possibile che l’Italia abbia sfruttato eccessivamente la “rendita artistica” rinascimentale, ma in particolare la “rendita dell’eleganza” che per Castiglione doveva esprimersi nel modo più quotidiano e silenzioso possibile. È significativo che gli americani oggi usino il termine italiano “bella figura” come espressione intraducibile e ambigua, che può indicare estrema raffinatezza ma anche vanità».

Si possono individuare alcune basi psicologiche per il declino che – a partire già da due secoli dopo il Rinascimento – ha declassato l’Italia da centro dell’Occidente a periferia?

«L’Italia era al centro del Mediterraneo, a sua volta centro del mondo sviluppato. Con la scoperta delle Americhe e l’era delle gradi navigazioni diventa in ogni senso marginale, ma per quanto riguarda la psicologia collettiva è diverso: essa non è rigida come le rocce della geografia, e potrebbe invece reagire. Il calo di potere e quindi di prestigio delle orgogliose società di cui l’Italia si componeva si è invece tradotto in un calo di autostima collettiva che, a circolo vizioso, ha prodotto sempre meno grandi correnti creative: per essere più precisi, l’Italia continua a produrre personaggi creativi straordinari, ma non offre più creazioni culturali universali come il Rinascimento. In particolare, le classi dirigenti non si amalgamano, non sono preparate a governare un paese-protagonista: non promuovono autostima collettiva, ma il suo contrario: un inespresso, sottile complesso di inferiorità».

Ritiene ci siano stati dei passaggi storici  più determinanti di altri in quest’involuzione psicologica, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze?

«Si prenda il Dopoguerra, quando – non più tenuto artificialmente in alto – il piatto della bilancia che conteneva il falso mito fascista dell’italiano-guerriero è sprofondato nell’oblio, mentre saliva in alto quello dell’anti-eroe. Questo passaggio è stato accolto col sollievo che tributiamo alla normalità e alla umanità, e questa nuova narrativa ha pervaso con prepotenza la maggiore forma espressiva del XX secolo, il cinema: grazie ad esso, l’Italia torna dopo secoli a un grande primato culturale, un primato conquistato anche con gli anni dei “miracoli economici”. Un cinema, però, complesso e differenziato, come il mondo in cui cresce rigoglioso. Mentre non ci eravamo identificati con gli eroi della propaganda fascista, il neo-realismo  riesce a farci identificare con la grandezza quotidiana e minimalista dei suoi anti-eroi; proprio perché profondi, Fellini e Alberto Sordi si accomodano nel profondo di un inconscio collettivo italiano che I vitelloni, La dolce vita, 8 e ½ vogliono rappresentare. È lo scandalo dell’ovvio, che già si poteva guardare ma non si riusciva a vedere, a descrivere. Il modo in cui Fellini si definisce rivela che la sua eleganza è discendente diretta di Castiglione – “Un artigiano che non ha niente da dire, ma che sa come dirlo” – e forse qualcosa di ancor più irraggiungibile: l’espressione sublime della superficialità.

Ma ciò che secoli fa veniva rappresentato come virtù adesso appare distorto, ribaltato in vizio. Perché questa trasformazione?

«Dopo il fascismo e altre ebbrezze pseudo-eroiche, l’Italia è riuscita a tornare al primato sia nei nuovi mass media sia con miracoli economici. Ma il primo successo – il cinema – ha prodotto una narrativa molto delicata, centrata su neghittosi e vigliacchi. Il secondo, la piccola impresa di famiglia: geniale, ma che proietta l’immagine tutt’altro che innovativa di una reiterazione di arcaiche strutture. Prima o poi, ogni atteggiamento psicologico profondo convoca sulla scena il suo contrario. La non-eleganza di cui stiamo parlando è infatti la inconscia faccia della sprezzatura. Essa diceva: le cose più significative si fanno senza farle notare, come se fossero sempre scontate. Dopo secoli in cui era diventato sempre più difficile dare per scontata la genialità – l’arte vestita di quotidianità – un tipo opposto di genio ha mostrato che è possibile trasformare in auto-indulgenza il vuoto, la bassezza, vestiti con l’arte del neorealismo. Esibire leggerezza non nell’arte ma nel suo opposto. Mostrare che si può essere vacui e abbietti, quasi senza pensarci. Sia nella sprezzatura, sia nei Vitelloni quello che si fa, si compie come se fosse irrilevante: paradossalmente, hanno in comune l’arte sublime della leggerezza. Questo atteggiamento contiene il pericolo, la tossicità, il rischio di renderci dipendenti più di qualunque droga. Una droga che si può vendere in ogni luogo, in ogni giorno, in ogni minuto senza rischi, se si è persa la gerarchia dei valori».

Ritiene che questa condizione penalizzi l’Italia all’interno dei propri confini tanto quanto al di fuori? E come?

«L’autovalutazione rassegnata che abbiamo interiorizzato viene, a circolo vizioso, riproiettata all’esterno causando un’involontaria sottovalutazione del paese: un caso, si potrebbe dire, di “capitale sociale negativo”. L’Italia è ancora, formalmente, uno degli 8 grandi. Ma la stima che riceve potrebbe spesso essere quella dell’ottantesimo: questo non è necessariamente frutto di una congiura anti-italiana, ma – in buona parte – restituzione di una scarsa autostima che proiettiamo nel Paese e fuori. Oggi è chiamata “soft power” l’influenza politica internazionale ottenuta con mezzi non militari o economici: ecco, da questo punto di vista l’Italia ha possibilità ancor superiori a quelle reali, di media potenza economica e militare: custodisce le maggiori radici storiche dell’Occidente, i suoi maggiori tesori artistici, la sua maggiore religione. La percezione di questo potenziale soft-power è invece bassissima, e purtroppo le cosiddette “percezioni” sono un evento immateriale determinante per infiniti fatti concreti: su di esse sono infatti costruiti diversi fra i principali indici di fiducia che decidono, fra le altre cose, le sorti dell’economia».

Vede oggi le condizioni per una nuova, auspicabile inversione di tendenza in questa leggerezza dell’essere italiani?

«La fiducia che si ispira agli altri dipende, prima di ogni altra cosa, dalla fiducia in se stessi, ma noi non abbiamo più prodotto grandi narrative dopo gli antieroi del neo-realismo. Così proiettiamo sottovalutazione, e sottovalutazione riceviamo. Anche l’attuale premier Matteo Renzi è stato rappresentato sulla copertina dell’Economist come un bimbo col gelato sulla barca europea, di cui Hollande e Merkel sono capitani. Questo però non ha provocato l’indignazione che avrebbero mostrato altri paesi, ma qualche sorriso di approvazione: è perché in queste immagini è dato per acquisito uno statuto di infantilizzazione permanente. Invece di sorridere dovremmo provare dei brividi e dedicarvi convegni interi di approfondimento. Contemporaneamente, non dovremmo mai dimenticare che chi visita l’Italia non viene solo per le belle coste, le opere d’arte, la buona cucina: in modo semi-cosciente, viene anche per ammirare come sopravvive una antica eleganza: la sprezzatura, lo stile di Castiglione e di Fellini».