L’economia circolare e i limiti della crescita

La sottile differenza tra nuovo modello di sviluppo e vaso di Pandora, che non vogliamo affrontare

[26 Giugno 2015]

L’economia circolare può davvero rappresentare il modello di sviluppo per l’Europa (e l’Italia) dell’immediato futuro? A giudicare dal livello del dibattito di nuovo raggiunto in seno all’Ue, la risposta sembra suggerire un tiepido ottimismo. Siamo ancora allo stadio di comunicazione politica, ben lontana dalla declinazione amministrativa e sempre in tempo a rivelarsi una maschera di cera. Si tratta comunque di segnali positivi che non possono essere ignorati, ma che rivelano già la possibilità di un tragico equivoco.

Com’è possibile verificare dalla periferia del Vecchio continente, ossia dall’Italia, dopo sette anni di profonda crisi e grazie ai noti fattori (esogeni dall’azione di governo: basso prezzo del petrolio, euro debole, e quantitative easing della Bce), si inizia respirare aria di possibile ripresina. Negli scenari economici semestrali presentati oggi da Confidustria, la stima del Pil italiano nel 2015 è data al rialzo a +0,8% (dal +0,5% di dicembre) e a +1,4% nel 2016 (contro +1,1%); previsioni che comunque «appaiono prudenti e lasciano spazio a sorprese positive».

È un bene che il Paese stia riacquisendo una misura più positiva delle proprie possibilità. Come ricorda il rapporto I.T.A.L.I.A. 2015 – diffuso oggi da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison – abbiamo ancora punti di forza da spendere in un mercato globale. L’Italia rimane tra i soli 5 paesi al mondo con surplus manifatturiero sopra i 100 miliardi di dollari, e vanta un totale di 932 prodotti classificatisi primi, secondi o terzi al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Più importante ancora, secondo Ermete Realacci – presidente della Fondazione Symbola – i talenti italiani «ci consegnano le chiavi della contemporaneità e delle sfide del futuro perché assecondano la voglia crescente di sostenibilità dei consumatori e danno risposte ai grandi cambiamenti negli stili di vita e nei modelli di produzione. E’ così che il nostro Paese, già oggi, può declinare quel ‘rifiuto dello scarto’ e quell’attenzione alle cose e alle persone del creato che papa Francesco mette al centro della sua enciclica Laudato si’». L’economia circolare come nuovo modello di sviluppo, insomma.

Il problema è che l’elemento centrale evidenziato da Realacci nei necessari «grandi cambiamenti negli stili di vita e nei modelli di produzione», e dunque di consumo, non sembra granché al centro del confronto politico. L’elemento che più interessa dell’economia circolare, come emerge chiaramente dal tono del dibattito, incide direttamente sui costi di produzione della manifattura europea: a oggi sono dovuti al 40-60% da materie prime e componenti, spesso da importare e con prezzi assai volatili. L’economia circolare, riducendo gli sprechi e attingendo alle miniere urbane europee, contrasta efficacemente a questo handicap.

Tutto bene, non fosse che l’economia circolare nasce per rispondere anche a un altro – e più determinante – problema, volentieri rimosso in ogni occasione possibile. I miliardi di tonnellate di roccia, pietre, sabbia e ghiaia spostate ogni anno dall’uomo ogni anno sono il triplo di quelle portate a mare da tutti i fiumi del mondo. Un mondo dove l’estrazione di risorse naturali è aumentata di 10 volte dal 1900 a oggi, ed è prevista raddoppiare ancora da qui al 2030: peccato che già oggi, secondo il Global Footprint Network, la nostra domanda di risorse ecologiche rinnovabili (per non parlare delle non rinnovabili) e dei servizi che questi forniscono sia equivalente a quella di oltre 1,5 Terre».

Questo a livello di media globale, mentre l’Italia è messa peggio: secondo gli stessi dati, oggi stiamo consumando più del 400% di quanto effettivamente possediamo in termine di risorse naturali, erodendo il nostro capitale oltre al reddito, per rimanere in lessico economicista.

Si tratta di numeri difficili da digerire, e l’intellighenzia industriale italiana non fa eccezione, come ben dimostra l’editoriale di oggi del Sole 24 Ore. «L’attuale sviluppo economico del pianeta appare assai rispettabile – si osserva oggi sul quotidiano di Confindustria – se continuasse con questo ritmo, alla metà del nostro secolo gli abitanti della terra godrebbero in media di una quantità di beni e servizi doppia rispetto all’attuale. Più che la crescita del reddito, il problema potrebbe essere quello della sua sostenibilità ambientale». Tale andamento potrebbe in realtà rallentare la sua corsa, ma il Sole non ritiene comunque necessario soffermare la sua analisi sull’impatto ambientale: il principale problema italiano sembra essere quello di riorientare il proprio export «verso i paesi che hanno maggiori prospettive di crescita». Paradossalmente, si tratta dello stesso giornale che la scorsa settimana celebrava l’enciclica di papa Francesco come «un impegno che non è solo ambientale, ma attraversa tutti gli stili di vita e mette in discussione i paradigmi che hanno governato fino ad oggi il pianeta e lo hanno portato alle crisi, ai disastri ecologici e agli squilibri economici, visto che le sessanta persone più ricche del mondo hanno le risorse dei 3,5 miliardi dei più poveri».

Fosse un caso clinico si tratterebbe evidentemente di schizofrenia, da debellare prima che diventi endemica, e che riguarda da vicino l’economia circolare. Il suo seme è stato piantato, ma il rischio che da questo sbocci poco più di un confuso slogan – come già da tempo è successo col motto “rifiuti zero” – è ancora molto concreto. Il tempo dirà se l’economia circolare potrà diventare davvero il cardine di un nuovo e sostenibile modello di sviluppo, oppure solo una versione 2.0 dell’arcinoto paradosso di Jevons, per il quale «l’efficienza nell’impiego di una risorsa non ne diminuisce il consumo, ma lo incrementa». La risposta a questo punto interrogativo sarà determinante, ma arriverà solo se cominciamo subito a porci la domanda.