Prima delle pensioni, la formazione

La Buona scuola e l’alternanza scuola-lavoro: di cosa discutiamo?

Una riflessione sulle difficoltà del sistema scolastico italiano nel garantire che il diritto allo studio produca equità ed eguaglianza

[21 Aprile 2016]

È possibile ragionare, per capire cosa succede nella scuola nel primo anno scolastico di applicazione della legge 107 (quella della cosiddetta “Buona scuola”)? Una caratteristica del dibattito culturale, prima che politico, in Italia è il gusto-la  necessità di schierarsi e di far schierare gli interlocutori: “dimmi subito come ti collochi, poi così ci capiamo”. Questo è il modo migliore per non avviare in forma collettiva una discussione, che faccia emergere  problemi,  descriva processi, ricostruisca un quadro capace di dar conto dei diversi, complessi e difficilissimi contesti in cui la scuola vive, assorbe, respinge tentativi  o pretese e maldestre  strategie  di cambiamento.

Il termine cambiamento di per sé è neutro, ma rischia di diventare nero, bianco o roseo in un Paese in cui troppo se ne parla, ma in genere lo si affida a tentativi, prevalentemente scomposti, di mantenere una condizione precedente, senza vedere che ormai quella cosa che sembrava tranquillamente persistente non esiste più, salvo che in stanche routine burocratiche, che niente hanno a che vedere con ruoli, necessità e  bisogni reali. Se a questa si aggiunge la considerazione che la scuola italiana è l’istituzione che negli anni continua a dimostrare una notevolissima capacità di metabolizzare tutto, riproponendo spesso, in forma un po’ peggiorata, quello che c’era da anni e che avrebbe dovuto essere almeno aggiornato, diventa molto difficile fare qualche utile ragionamento.

Le sassate  che la 107 ha lanciato in direzione della scuola sono sostanzialmente tre: immissione in ruolo dei precari, comunque collocati in liste antiche, meno antiche e più recenti, a esaurimento; valutazione del personale; autonomia intesa come richiesta alle scuole di perseguire, progettando autonomamente, percorsi di rinforzo, di sostegno, di orientamento, di motivazione, di  ri-motivazione,  di adeguamento di contenuti e di metodologie. Tutto questo dovrebbe accadere utilizzando l’incremento quantitativo del personale messo a disposizione delle singole istituzioni. Le attività di scuola-lavoro, divenute obbligatorie per tutte le tipologie di scuola secondaria di secondo grado, volente o nolente il Miur, stanno qui dentro.

Si potrebbe dire che questa collocazione, nel calderone della terza sassata, non sia corretta, visto che il Miur ha mandato fondi e circolari in relazione a queste attività, ma poi i processi si attivano attraverso chi, in un momento dato, si trova nel luogo preciso in cui il processo dovrebbe partire, quindi non appare scorretto collocarle lì. A due mesi dalla fine del primo anno scolastico, vigente legge 107, se l’alternanza, nell’ intenzione del legislatore doveva essere il cardine, la prospettiva di un rinnovamento, appare per lo meno sconcertante che, ad oggi, manchi qualsiasi notizia di monitoraggi in itinere, che orientino i tentativi, faticosi e spesso  modesti , di riflessione sul processo. Per ora è possibile solo appellarsi alle poche voci, che hanno agito il problema e ad altre che lo hanno agitato, più che agito.

La prima voce è quella del  padronato illuminato (così si auto-presenta, e con qualche ragione, l’associazione Treelle). Nel convegno del novembre scorso, ripreso successivamente dal Sole 24 Ore, Treelle presenta il declino della  istruzione tecnica secondaria e terziaria in Italia,  da indirizzo scolastico più richiesto negli anni ’90 (45,5% degli iscritti) fino al 2014-15 che vede le iscrizioni  ridotte al  31,7%. Nel mentre i licei, articolati in troppi e diversi indirizzi passano dal 35,6% al 47,9% del totale delle scelte dei giovani (l’istruzione professionale rimane ferma). Quell’incontro formula una serie di analisi e di proposte sulla qualità dei processi di transizione tra scuola, università e lavoro in quei settori che, già oggi ma sempre di più nel futuro, dovranno vedere l’impegno di giovani preparati nella ricerca e nell’innovazione in tutti i campi.

Lo studio legge il processo anche alla luce delle difficili condizioni del mercato del lavoro attuale. Non pone la questione in termini di ricostruzione del patrimonio di reputazione di questa filiera formativa, ma evidenzia criticità come ambiti che richiedono attenzione e qualche allarme: il passaggio all’istruzione liceale dell’indirizzo biologico e dello scientifico tecnologico, la sovrapposizione di indirizzi tecnici e di quelli della istruzione professionale, la riduzione delle attività di laboratorio, la persistenza della scelta precoce – di fatto rimasta all’atto della iscrizione alla prima classe della secondaria superiore – che fa perdere le potenzialità del prolungamento dell’obbligo a 10 anni di scolarità (torna qui l’ipotesi di un biennio unico con funzione orientante), la preparazione dei docenti, l’obsolescenza delle classi di concorso, l’assenza di un piano mirato di aggiornamento e la difficoltà di coinvolgimento delle aziende, soprattutto la scarsa efficacia dei comitati scuola lavoro.

Tante e non tutte dello stesso peso le questioni sollevate, ma tutte meritevoli di essere prese in carico da chi è responsabile del sistema.

La seconda voce è ben rappresentata in una serie di articoli pubblicati su Educationduepuntozero  (A. M. Allega  Alternanza possibile? Sì) che fa concretamente i conti con quello che si può fare o che non si può fare, in termini di risorse, di opportunità, di difficoltà e di cambiamenti culturali che non è detto che la scuola, nel suo complesso, si voglia/si possa sobbarcare. È interessante tuttavia richiamare le due condizioni che vengono considerate essenziali per la realizzazione di queste esperienze.

Allega parla di “verità trasversali”. La prima è che la scuola non è un’azienda e non fa mercato. La seconda è che l’azienda e il mercato sono, e dovrebbero essere soggette alla “Responsabilità sociale d’impresa” (libro verde Ue del 2006).

La scuola non è un luogo in cui si ha occasione di guadagno, ma forse per la prima volta istituzionalmente si potrebbe verificare l’incontro tra responsabilità educativa e responsabilità sociale dell’impresa. I modi  per realizzare questo incontro  possono essere molti e diversi, e dovrebbero essere studiati, promossi, passati a un serio vaglio di controllo. Ma se le scuole sono obbligate a fare sistema per l’alternanza, lo stesso obbligo dovrebbe riguardare le aziende, che per questo dovranno essere in qualche modo responsabilizzate e sostenute. Bella idea che dovrebbe essere declinata  per vari lavori e tipologie di aziende, attività e servizi, ma soprattutto una domanda: che fare perché tutto questo  discorso non resti una generosa utopia, anche se suffragata da alcune esperienze significative?

La terza voce agita le varie tipologie di lamentele, più che proteste, che  esprimono disagi  di vario tipo: pretestuose giustificazioni di resistenze al nuovo, denunce molto serie della impraticabilità e della esperienza in condizioni date (è veramente difficile identificare luoghi di lavoro “accoglienti” per questi processi, quando vengono  generalizzati), riproporsi di posizioni  di rifiuto tutto ideologico (la scuola  non deve formare per il  lavoro, come se il lavoro non fosse, almeno  si spera, un grande e qualificato elemento di coesione e di  inclusione sociale nella complessità del mondo globale  e non debba essere un elemento  fondante del  processo formativo  dei giovani come diritto alla cittadinanza e alla partecipazione).

Vale forse la pena di prestare un po’ più di attenzione a tutto questo. Intanto si evidenzia una dato: la scuola non si rappresenta, prima di tutto a sé stessa, come un luogo di lavoro, come un’organizzazione sociale che produce cultura organizzativa finalizzata agli scopi dei quali istituzionalmente deve rendere conto. Sarebbe interessante  abituare le scuole a osservarsi da questo punto di vista, a descriversi come luogo di lavoro e a interpretare concretamente la/le culture sociali e le dimensioni di responsabilità individuali e collettive che si  esprimono.

Un’applicazione, in senso estensivo, di esperienze di “apprendimento organizzativo” dentro i luoghi preposti a sviluppare potenzialità, creatività, educazione ecc. sarebbe sicuramente un’esperienza utile e  interessante proprio nel senso di un apprendimento non trasmissivo, ma capace di sviluppare senso critico e responsabilità. Si tratterebbe di un cambiamento  culturale, capace di dare un contributo allo stanco, stanchissimo dibattito sulla riforma degli organi collegiali, in cui si agitano fantasmi di una lettura ormai lontana di una socialità, che oggi cerca nuove forme di aggregazione e di rappresentanza, in cui giovani-adulti dovrebbero poter trovare il senso della costruzione di identità e itinerari di autorealizzazione.

Sicuramente  la rivendicazione di un’estraneità della scuola alla contingenza dei processi in atto nella società è un elemento di forza e di salvaguardia di spazi indispensabili  alla  libertà  di formazione  e   alla consapevolezza critica, ma stupisce che questo ancora oggi non trovi forme diverse da un arroccamento, una sorta di aristocratico isolamento e non di un continuo, utile confronto con  una compagine sociale molto complicata e non sempre linearmente interpretabile.

Non si tratta di scoprire o riproporre la retorica del  valore educativo del lavoro, ma di guardare in modo molto concreto  le modalità in cui un processo di apprendimento dovrebbe esprimersi in quanto cultura di ciò che si apprendere per essere, per fare, per comunicare in contesti  sociali dati. Sono questi gli aspetti sui quali si contano le maggiori difficoltà del sistema scolastico italiano nel garantire il diritto allo studio, nel produrre equità ed eguaglianza.

Con enorme ritardo rispetto al resto del mondo l’Italia è riuscita, solo nel primo decennio di questo secolo, a prolungare  il diritto alla studio per tutti fino a 10 anni di scolarità. Il processo tuttavia non è stato affatto chiaro nell’ipostazione e nella finalità: dare strumenti per orientare una scelta consapevole e strumenti adeguati per perseguirla a tutti, ragazzi e ragazze. Ancora oggi la scelta circa il futuro di studio e/o di lavoro avviene dopo la terza media (elemento rafforzato dall’esame di Stato e dalla non generalizzazione della certificazione delle competenze dopo 10 anni di scuola, che viene prodotta solo per chi non continua e che non ha le caratteristiche di certificazione per tutti).

Processi di  razionalizzazione, fatti alla luce del perseguimento di risparmi sulla base di tagli lineari di spesa e non coerenti col ripensamento di un biennio seriamente orientante (provvedimenti Gelmini,  obbligo dentro la scuola o nei centri di formazione professionali  accreditati) hanno riconfermato le scelte precoci, impoverendo contenuti  di apprendimento senza introdurre opportunità concrete  accrescimento di saperi.

Di qui il paradosso: chi lamenta la riduzione delle ore di laboratorio, per esempio, non vede che l’alternanza scuola-lavoro estesa a tutti può fornire opportunità di apprendere in contesti in cui il sapere si misura col fare e con l’ottenere risultati, attraverso strategie cognitive capaci di muovere quelle intelligenze “multiple” che la scuola non sempre riesce a utilizzare.

Pare opportuno citare qui un vecchio libretto che, in tempi non sospetti parlava di “competenza esperta” (A. M. Ajello, M. Cevoli, S. Meghnagi,  La competenza esperta,  Ediesse – 1992) e che, citando studi importanti sviluppati negli Stati Uniti, quelli di L.B. Resnick in primis, faceva vedere, per esempio, la vicinanza e coerenza tra il processo cognitivo attivato da un radiologo che interpreta un lastra e il cameriere che, in un ristorante affollato, prende ordinazioni per trasmetterle alle cucine. Non si tratta di battute ma di spunti che forse, oggi, potrebbero essere usati nelle scuole per pensare come sfruttare concretamente situazione nuove in cui aiutare ad apprendere.