[04/04/2011] News

Tornano in voga i subprime... alla faccia della ragione

LIVORNO. Che perseverare sia diabolico non è evidentemente cosa per l'economia finanziaria. A dimostrarlo è la notizia che sono tornati (drammaticamente) di moda i subprime. Non è uno scherzo, «torna l'appetito» scrive sabato il Sole24Ore, per i vituperati strumenti all'origine e simbolo della crisi peggiore dal '29 ad oggi. «Il mercato delle obbligazioni che 'impacchettano' mutui residenziali, compresi i meno sicuri, - spiega il quotidiano di Confindustria - torna a essere popolato di investitori. E, vilipeso quale causa degli eccessi della finanza e della crisi dell'economia, viene ora considerato come una dimostrazione di ritrovata normalità».

Forse è anche questo il «new normal» di cui si è discusso nei mesi scorsi, ovvero la normalità dell'anormalità. L'accettazione, insomma, che nonostante tutto (crisi, analisi della crisi, soluzioni prospettate e auspicate, strumenti e regole ipotizzati) le non-regole del mercato siano la sua migliore faccia della medaglia. Perché proprio l' assenza di regole permette di rimescolare il bene e il male confezionando sempre nuovi e appetibili strumenti considerati appetibili proprio in quanto rischiosi: quintessenza della finanziarizzazione dell'economia, quindi, nell'ottica di più potenziale rischio-più potenziale guadagno.

E' l'economia finanziaria, bellezza. Ciò che per noi è il lato oscuro e nemesi dell'economia, per altri è la sua linfa vitale. Investitori compresi, che finita l'era degli stuntman in tv, hanno bisogno evidentemente di emozioni forti e illusorie per scommettere sempre e comunque nonostante le evidenze. Chissà se a breve vedremo corsi per disintossicarsi dal gioco in borsa, come dal gioco dei cavalli o delle slot machine.

Nel frattempo ci conforta, ma solo per l'analisi, sapere che persino Michael Spence, docente di economia della Business Scholl della New York University e premio Nobel, sostenga che: «Sono talmente rapidi i mutamenti nel mondo, così improvvisi i fatti in grado di spostare valori, così elevata la volatilità dei mercati, che né io, né lei (rivolgendosi a chi lo intervistava, ndr), né nessun altro che non lo faccia di mestiere, è in grado di monitorare la situazione con efficacia e di decidere le mosse da fare con sicurezza e subitaneità».

E il problema è (si fa per dire) tutto qua: perché dall'altra parte della barricata, ovvero dalla parte di chi dovrebbe «monitorare la situazione con efficacia e di decidere le mosse da fare con sicurezza e subitaneità» ci sono le istituzioni e tutti quelli che lavorano o cercano di lavorare per far sì che gli impatti di un'economia così incontrollabile non destabilizzi oltremodo l'economia reale, e quindi determini le pesantissime conseguenze sociali e ambientali nella vita di tutti i giorni delle persone comuni. Conseguenze evidenti più che mai dal 2008 ad oggi e non ancora rientrate. Situazione, quindi, caotica e in apparenza immutabile.

Le lezioni che si dovevano imparare dalla crisi, pare che siano state utili a far scrivere i giornali (compreso il nostro) e a fare esercizio di stile agli economisti e poco più.

Un panorama non certo roseo (in un contesto già di per sé ricco di tragedie ) in cui ci viene solo parzialmente in aiuto un luminare come Edgar Morin, che sulle pagine di Repubblica di sabato sostiene una tesi che mina (minerebbe) alla base anche tante nostre convinzioni. Il sociologo francese sostiene, infatti, che la cultura occidentale è «da sempre prigioniera del mito della ragione» tanto che «ha idealizzato una razionalità pura, radicalmente separata dalle emozioni e dalle passioni». Ma «non si può pensare - come faceva Hegel - che tutto sia riconducibile al dominio della ragione, al contrario dobbiamo essere coscienti che moltissimi aspetti del reale sfuggono alla comprensione razionale».

Vero e guai se ci facessimo prendere dal totem della ragione sopra ogni cosa. Ma con tutto il rispetto di Morin, figura fondamentale anche della nostra formazione, ci pare che in occidente stia accadendo e da un po', l'esatto contrario. Come se in risposta ad una razionalità dominante si volesse contrapporre l'esatto contrario dell'emozione prima di tutto raggiungendo in campo ambientale persino il parossismo di rigettare qualsiasi dato scientifico e far dominare la paura.

Difficile quindi concordare con Morin se non nelle conclusioni in cui raccomanda un dialogo continuo tra ragione e passione. «Se veramente volessimo insegnare ai giovani la complessità della realtà umana- dice Morin- dovremmo spiegare loro che, accanto all´homo sapiens, figura sempre l´homo demens, giacché il delirio e la follia sono da sempre una delle polarità umane. Come pure, accanto all´homo oeconomicus, non manca mai l´homo ludens, quello che adora il sogno e il gioco. Insomma, l´homo faber non è solo un inventore di macchine, ma anche un produttore di miti e di credenze che non poggiano certo sulla razionalità. Riconoscere questa ricchezza e questa complessità è oggi una necessità, perché solo così sarà possibile affrontare le sfide della contemporaneità».

Che sia una ricchezza e una complessità è evidente, come è evidente che solo affrontando contestualmente questi due aspetti antitetici ma complementari della natura umana si può vincere la sfida rappresentata dalla rifondazione di un nuovo umanesimo. Ma, dal nostro punto di vista, il fatto stesso che la parte razionale sia al momento tutt'altro che predominante nella cultura occidentale, fa spostare il pendolo dell'attenzione esattamente dalla parte opposta e quindi a frenare l'emozionalità dilagante e assolutamente non costruttiva e quindi insostenibile.

 

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