[22/05/2013] News toscana

Il dibattito sulla formazione del piano paesaggistico e della riforma della legge 1 continua

Il dibattito sulla formazione del piano paesaggistico e della riforma della legge 1 continua e continuano anche i confronti tra regione e comuni; può essere un dialogo costruttivo se oltre i contenuti si riesce a fare chiarezza sulla nuova struttura e funzionalità del rapporto regione - comuni. Una necessità, tenuto conto della futura decadenza delle province, una opportunità, se la riforma costituisce l'occasione anche per una riqualificazione delle strutture tecniche ed amministrative degli enti.

E' certo che occorre semplificare le modalità di redazione degli strumenti di pianificazione perché il rischio, tra contenuti dilatati della pianificazione e procedimenti di valutazione e partecipazione, è quello di rendere la redazione costosa e proceduralmente lunga.

Ma sembra altrettanto evidente che per garantire il risultato occorre mettere in campo una organizzazione funzionale delle strutture tecniche dei comuni e della stessa regione, strutture che oggi appaiono spesso deficitarie per quantità e qualità.

Se a monte della riforma deve stare e sta, come ha più volte espresso il Presidente Rossi, un'idea della Toscana che gode di una vera e propria rendita di posizione, in genere,  per la qualità del suo territorio e del paesaggio, che sono motivo primario per un suo apprezzamento non solo turistico, ma anche nelle politiche insediative di imprese o strutture di ricerca, perché in un luogo più bello si lavora meglio che in uno che bello non è, è evidente che si devono costruire i processi ed i procedimenti finalizzati a garantire il perseguimento dell'obiettivo.

Certamente occorrono responsabilità ed intelligenza politica a tutti i livelli, ma questo non basta.

Occorrono strumenti chiari e sicuri, siano questi quelli legislativi (e il recente monito di Lando Bortolotti in proposito dovrebbe far riflettere), oppure quelli di pianificazione, cioè il PIT da una parte che deve cessare di essere una narrazione ampia e mai precisa, che se deve essere piano paesaggistico deve anche stabilire anche, per alcuni contesti, che non si può più  produrre trasformazione perché ci sono valori paesaggistici, ambientali, storici e documentari che impediscono la trasformazione e che deve essere chiaro da subito che sono beni comuni in qualche modo inalienabili. Oppure deve individuare zone di degrado dove molto probabilmente la storica gestione del vincolo non è stata soddisfacente, dove ci si deve inventare una politica urbanistica di ristrutturazione e ridisegno completo di insediamenti, cogliendo così anche l'esigenza di densificare, se occorre, per impedire nuovo consumo di suolo, arricchire le aree urbane di verde e parcheggi e servizi.

Infine occorre una classe dirigente adeguata ai vari livelli, una classe dirigente ricomposta selezionando il meglio di quel che c'è, avviando alla pianificazione nuove generazioni, dopo che le università sono state anni a coltivare i giovani nel mito ed al mito "delle archistar".

Tutto questo ovviamente non fa venire meno la necessità di ripensare alla costruzione legislativa e degli strumenti, alla possibilità che il piano paesaggistico, per esempio riconsideri in alcuni casi gli ambiti territoriali omogenei cogliendo specificità che forse sono sfuggite, come può essere nel caso dell'arcipelago che è una terra diversa, fatta d'acqua, che forse godendo di una lettura diversa può trovare i determinanti di più coerenti politiche economiche, non più imperniate sullo sfruttamento edilizio, ma sulla qualità ambientale sulle opportunità diversificate di fruizione che sono possibili a partire da un modello diverso di accessibilità che limiti fortemente le auto.

Infine, una riflessione a margine di alcune osservazioni formulate in questi giorni circa il ruolo di altre istituzioni rispetto a comuni e regione. Mi riferisco per esempio ai parchi. La leale collaborazione in questo caso, date anche la ristrettezza finanziaria che attanaglia le strutture pubbliche, dovrebbe forse inverarsi nella riallocazione di alcune competenze, per esempio, il piano del parco potrebbe anche non essere prodotto da una struttura tecnica del parco, potrebbe produrlo la regione o  i comuni il cui territorio è nel parco in toto o in parte e approvato dal parco che poi lo dovrà gestire, ma così facendo si potrebbero anche consegnare al parco risorse per fare di questo non un ridotto della difesa della natura, ma un motore di un nuovo modello di sviluppo. Può sembrare una provocazione quest'ultima, ma forse non si deve dimenticare che solo se si supera la contrapposizione tra pianificazione dei parchi e pianificazione ordinaria, l'idea che il parco doveva contrastare "affari e quanto di peggio accadeva fuori" in una logica difensiva, che magari più di venti anni orsono aveva ragione di essere, si può fare una svolta perché in prima istanza vuol dire aver cambiato atteggiamento culturale. Magari è utopia questa, ma forse in Toscana potremmo anche avere questa ambizione. Quantomeno pensiamoci un po' sopra.

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