[29/04/2013] News

Strage del Rana Plaza in Bangladesh: gli operai morti producevano per la moda italiana

Lo rivela la Campagna Abiti Puliti

Si contano ormai a centinaia, ma nessuno probabilmente saprà mai quanti sono davvero i poveri morti nel crollo del Rana Plaza a Savar, nella regione di Dhaka in Bangladesh, un fatiscente edificio di 8 piani, costruito in un terreno paludoso.  Intanto però in Bangladesh continuano le manifestazioni dei lavoratori e dei parenti delle persone scomparse nel crollo provocato dalla criminale avidità dei costruttori/proprietari e dalla corruzione dei funzionari pubblici e dei politici che hanno fatto finta di non vedere questo mostro omicida di cemento. 

I lavoratori sopravvissuti raccontano che i proprietari delle 5 fabbriche che lavoravano nel Rana Plaza non avevano mai dato alcun peso gli allarmi lanciati  dagli operai, che denunciavano delle crepe sospette e che i dipendenti erano costretti a lavorare, nonostante il pericolo, se volevano salvare un posto di lavoro da pochi dollari al giorno.

Ma in questa drammatica vicenda c'è anche un altro aspetto che riguarda il rutilante mondo della moda e che evidenzia la  Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign (Ccc) che, insieme ai sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori attivi in Bangladesh e in tutto il mondo, «Chiede un intervento immediato da parte dei marchi internazionali». Secondo Campagna Abiti Puliti, «Gli attivisti dei diritti umani sono riusciti ad accedere alle macerie del Rana Plaza, dove hanno trovato  etichette e documentazione che collega alcuni grandi marchi europei a questa ennesima tragedia: la spagnola Mango, l'inglese Primark e l'italiana Benetton (che però smentisce), oltre ad altri marchi italiani. Sul loro sito web, le aziende elencano tra i loro clienti altrettanti noti brand, tra cui C&A, KIK e Wal-Mart, già noti alle cronache per l'incendio nella fabbrica bengalese Tazreen, dove 112 lavoratori sono morti esattamente cinque mesi fa, e, per quanto riguarda la tedesca KIK, per l'incendio della pakistana Ali Enterprises, dove quasi 300 lavoratori sono morti lo scorso settembre».

In Bangladesh ci sono oltre 4.000 fabbriche che producono vestiti per i grandi marchi occidentali e che occupano più di 3 milioni di persone, il 90% donne, in condizioni di lavoro spesso disumane,  il Paese è  il secondo esportatore di prodotti tessili al mondo.

Secondo la Ong e i sindacalisti del Bangladesh, «I lavoratori morti e feriti stavano producendo capi di abbigliamento quando lo stabile che ospitava più fabbriche tessili, con piani costruiti presumibilmente in maniera illegale, improvvisamente ha ceduto generando un enorme frastuono e lasciando intatto solo il piano terra. Questo crollo fornisce ulteriori prove a conferma dell'inefficacia del ruolo delle società di auditing nella protezione della vita dei lavoratori. Gli attivisti impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori sono convinti che tali decessi continueranno fino a quando le imprese e i funzionari di governo non sottoscriveranno un programma per la sicurezza degli edifici indipendente e vincolante».

Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, spiega che «Tragedie come questa mostrano la totale inadeguatezza dei sistemi di controllo e delle ispezioni condotte dalle imprese senza il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori. Non possiamo continuare ad assistere ad un tale sacrificio di vite umane dovuto alla totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla competizione al ribasso. Le famiglie delle vittime e i feriti rimaste senza reddito e supporto ora hanno diritto a cure adeguate e risarcimento appropriato da parte delle imprese coinvolte per gli irreparabili danni subiti, oltre a giustizia immediata e assunzione di responsabilità da parte di tutti colore che dovevano prevenire questa carneficina».

La soluzione ci sarebbe, soprattutto per quelle aziende che fanno "social-washing" e campagne umanitarie in occidente e poi sfruttano il lavoro in condizioni indecenti in Bangladesh: «Per mettere fine a questi incidenti, la Campagna Abiti Puliti esorta i marchi che si riforniscono in Bangladesh a firmare immediatamente il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement» e la Ccc insieme ai sindacati locali ed alle organizzazioni internazionali per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un programma specifico di azione che include: «Ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. È un'operazione di fondamentale trasparenza che deve essere sostenuta da tutti gli attori principali bengalesi e internazionali. L'accordo è già stato sottoscritto lo scorso anno dalla società statunitense PVH Corp (proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e dal distributore tedesco Tchibo. È il momento che tutti i principali brand del settore si impegnino per garantirne una rapida attuazione. Il programma può salvare la vita di centinaia di migliaia di lavoratori attualmente a rischio in fabbriche insicure e costruite illegalmente».

Secondo Irin, l'agenzia stampa umanitaria dell'Onu, anche la confusione che si vede nei soccorsi è il frutto dell'instabilità politica che regna in Bangladesh, che sta ostacolando anche gli sforzi di preparazione alle catastrofi. Tra gennaio ed aprile i partiti di opposizione hanno organizzato 18 scioperi nazionali ed altri scioperi si sono tenuti a livello di regioni e distretti.

Gerson Brandao, consigliere per gli affari umanitari all'ufficio di coordinamento Onu in Bangladesh «La capacità collettiva della comunità umanitaria di riunirsi e pianificare, mettere in opera e controllare le iniziative per lo sviluppo è stata limitata  dagli scioperi consecutivi. Le visite sul terreno sono state posticipate a più tardi e la capacità delle organizzazioni umanitarie a sostenere i partner locali è stata colpita». 

E' un gatto che si morde la coda: gli scioperanti protestano giustamente contro le pessime condizioni di lavoro ma dietro le bandiere rosse spuntano quelle veri che chiedono anche che siano liberati i capi dell'opposizione islamista, che  venga abolito l'International crimes tribunal istituito dal governo per indagare sui crimini di guerra commessi nella guerra di liberazione del 1971 e un governo ad interim che supervisioni la correttezza delle elezioni nazionali del 2014;  ma gli scioperi bloccano le organizzazioni internazionali che dovrebbero vigilare sulla correttezza delle politiche del lavoro e sul processo democratico e spesso finiscono in disordini con il rogo di ogni mezzo pubblico che capita a tiro, compresi i mezzi delle agenzie Onu. Ala fine, a pagare l'impazzimento politico di uno dei Paesi più densamente popolati del mondo e di quello più a rischio per i cambiamenti climatici, sono proprio le persone più vulnerabili e le operaie che lavorano in fabbriche prive di ogni controllo.

Per Gareth Price-Jones, direttore di Oxfam in Bangladesh, «La situazione è ancora gestibile. Siamo però preoccupati per il futuro. Con altre Ong e l'Onu, ricordiamo a tutti i protagonisti che il lavoro umanitario è protetto dal diritto internazionale. Dobbiamo poter proseguire il nostro lavoro anche se la situazione si deteriora».

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