[20/02/2013] News

Ricavi in crescita, ma occupazione al ribasso: ecco la jobless recovery firmata Fiat

L’economia verde è una grande arma contro la disoccupazione, dobbiamo garantire che avanzamento tecnologico e globalizzazione rimangano opportunità

Il mercato dell'auto va male, molto male. Le quattro ruote stanno perdendo il loro ruolo di status symbol e, soprattutto, rappresentano un bene sempre più costoso da mantenere, mentre in Italia la soglia della saturazione sembra sempre più prossima. Il parco veicolare tout court - in un Paese da 60 milioni di abitanti - conta già più di 49 milioni di mezzi. Anche l'andamento demografico sembra suggerire che, al limite, le future immatricolazioni saranno di sostituzione dell'esistente.

Simbolo di questo declino, in Italia, è la Fiat. Secondo gli ultimi dati, le immatricolazioni del gruppo a gennaio (rispetto allo stesso mese del 2012) sono scese del 12,4%, proseguendo una tendenza al ribasso. La strategia della tensione occupazionale scatenata dall'ad Marchionne in Italia, con la paventata e periodica minaccia di chiusure agli stabilimenti nazionali, è stata non a caso uno dei simboli italici di questi anni di crisi. Eppure, a leggere i conti di Fiat non sembra affatto che le cose stiano andando così male. Proprio a fine gennaio furono diffusi i dati relativi al 2012 quando, come evidenziò il quotidiano torinese per eccellenza - la Stampa - «i ricavi del Gruppo Fiat sono stati pari a circa 84 miliardi di euro, in aumento del 12% rispetto al 2011 su base pro-forma (+8% a cambi costanti)».

Merito prevalentemente dell'andamento del gruppo all'estero, più che positivo: «le regioni NAFTA e APAC hanno registrato una significativa crescita, rispettivamente del 29% (+19% a cambi costanti) e del 50%». Fatto sta nelle patrie terre si minacciano licenziamenti, quando i conti del gruppo sono più che in ordine: in un contesto di crisi economica mondiale, con il Pil italiano che è sceso nel 2012 del 2,2%, ricavi al +12% non dovrebbero rappresentare un risultato tale da giustificare fosche prospettive di licenziamenti.

Questo quadro apparentemente allucinato ben rappresenta, almeno all'interno del contesto italiano, quella che viene chiamata jobless recovery, ossia ripresa senza occupazione. Un fenomeno che, come spiega l'economista Gustavo Piga, si ripresenta con costanza le varie recessioni che si sono susseguite dal 1982 (negli Usa, area geografica alla quale lo studio citato fa riferimento), facendo sistematicamente fuori i posti di lavoro classificati come routinari (e l'operaio in catena di montaggio Fiat rientra tra questi). «Sembrerebbe proprio che globalizzazione ed ICT (e forse altri fattori) stanno cancellando la classe media che lo sviluppo del dopoguerra aveva creato - osserva Piga - e lo fa discretamente, approfittando delle recessioni, dando "l'occasione" per modificare localizzazione e tecnologie per produrre di più nella successiva ripresa, ma con meno occupazione. Questo è tema che non riguarda solo gli Stati Uniti, credo che ci riguardi da vicino, anche se per ora meno drammaticamente».

Quando la dimensione dei ricavi è posta come unica bussola d'orientamento la valvola della pressione aziendale si regola facendo leva sui lavoratori, accrescendo le fila di disoccupati e inficiando grandemente quanto di buono globalizzazione e, soprattutto, innovazione tecnologica portano con sé per l'umano benessere.

Come tornare, dunque, a pensare in termini di piena e buona occupazione e togliere le gambe dalle sabbie mobili della crisi? Saremmo dei folli se pensassimo di avere una netta risposta da snocciolarsi in pochi e semplici regoline (sebbene sia una tentazione in cui, specialmente in campagna elettorale, sembra facile cadere). Tuttavia, è l'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) a suggerire che procedere «verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent'anni e aiuterebbe decine di milioni di lavoratori ad uscire dalla povertà».

La green economy, dunque, può certamente rappresentare una risposta non solo sotto il profilo economico, ambientale e sociale, ma anche occupazionale: vigilare perché il suo sviluppo, nel tempo, rimanga tale è un presupposto per la sostenibilità del suo successo sul quale occorre riflettere sin da adesso, al rischiararsi della sua alba.

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