[29/01/2013] News toscana

Quattro ore sotto la neve, nel campo senza fine di Birkenau. Un ricordo che non deve sbiadire

Martedì 29 gennaio, Giorno della Memoria. Come l'altro ieri, come domani. Per ricordare non basta una sola giornata: 364 soli da smemorato sono davvero troppi da veder sorgere in un anno. E se "sostenibilità" significa anzitutto capire quale eredità vogliamo che la nostra società conservi per se stessa e per i suoi eredi, anche un quotidiano di economia ecologica può permettersi di ricordare quel che non può essere dimenticato, ma che mai dovrà essere rivissuto in futuro. Lo facciamo in controtendenza, in un giorno non tradizionale, prendendo a prestito le belle parole di Walter Fortini, collega della Regione Toscana, che ha accompagnato i ragazzi della nostra terra nel viaggio del Treno della memoria.

OSWIECIM (Polonia) - Nelle quattro ore sotto la fitta neve che cade sul campo di Birkenau, il paese del bosco delle betulle dove sette villaggi furono rasi al suolo per far posto al più grande campo di sterminio nazista, è la vastità che per prima ti colpisce. Cammini dentro, non vedi la fine da una parte all'altra e questo sconvolge i ragazzi ma anche i meno giovani. Birkenau, progettato per ospitare fino a 200 mila persone alla volta, si estende infatti come 350 campi da calcio. Con Auschwitz, Monowitz e tutti i sotto campi si arriva addirittura a quaranta chilometri quadrati.

Fa freddo nel primo giorno in Polonia dei 557 ragazzi toscani del treno della memoria. Ma durante la guerra faceva ancora più freddo, raccontano le guide: anche 35 o 40 gradi sotto zero, con indosso una divisa leggera ed un paio di zoccoli. I ragazzi ascoltano, prendono appunti, scattano foto. Ma metro dopo metro il cuore si stringe, gli sguardi si alzano al cielo e i visi si corrugano. Cercano risposte e non le trovano. Difficile del resto trovarle. Qualcuno si fa coraggio e chiede alle sorelle Bucci cosa hanno provato.

I numeri di Birkeanu sono da brivido. Settanta anni fa c'erano 300 baracche: 244 in legno, stalle da campo trasformate in alloggi. Ognuna con una stufa, prevista dal regolamento, ma che il regolamento non obbligava ad accendere. E la notte dai vetri rotti e gli spifferi frequenti cadeva acqua e neve. C'era anche uno spicchio più ‘umano', "specchio per le allodole" nel caso di ispezioni della Croce Rossa che mai ci furono. E i suoi ospiti furono tutti uccisi, come i 23 mila Rom e sinti del campo famiglia, abitato da 11 mila bambini.
Attraversare i lunghi sentieri di Birkenau per quattro ore o avvicinarsi ai vagoni bestiame piombati ancora sui binari - a destra la morte sicura e a sinistra (forse) la speranza di sopravvivere - dà solo una timida e parziale rappresentazione delle crudeltà e della vita in un campo di sterminio. La mostra fotografica al termine della ‘sauna', con decine e decine di foto di famiglia trovate in una valigia rimasta sepolta chissà come nel fango, offre un volto e un nome a parte del milione e mezzo di persone che dall'intero complesso di Auschwitz sono uscite col fumo dai camini. E' poco. Ma è abbastanza perché ti venga un groppo alla gola. O per provare rabbia e vergogna. O per comprendere come molti, presi dalla disperazione, non ce l'abbiamo fatta e si sono suicidati prima: contravvenendo al regolamento, andando incontro al filo spinato elettrico che con 16 mila pali in cemento circondava dentro e fuori il campo, uccisi prima il più delle volte dalle sventagliate delle guardie sulle torrette.

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