[25/01/2013] News

Tokyo punta di nuovo sul nucleare: nuova politica, nuovi reattori... stessi rischi

Se questa fosse una partita di poker, quello attuato dal Giappone post-Fukushima sembrerebbe agli occhi degli spettatori il più sorprendente dei bluff. Agli occhi dei giocatori più navigati (esperti di politiche energetiche, economisti, ecc.), invece, l'annunciato ritorno all'energia atomica è apparso una mossa facilmente prevedibile, e forse inevitabile, alla luce delle strategie di lungo periodo della nazione e della situazione economica attuale.

Privare il Giappone del nucleare significa infatti sottrarre a una nazione priva di risorse naturali il 30% dell' energia necessaria a soddisfare il fabbisogno interno. E significa dunque obbligarla all'acquisto di gas e combustibili fossili dall'estero per una spesa quantificata in circa 50 mila miliardi di Yen (500 miliardi di euro) per i prossimi 20 anni. Un conto decisamente salato per un' economia come quella nipponica, che presenta un debito pubblico pari al 200% del PIL. A questo, per completare il quadro, si aggiungano le minacce da parte di alcuni importanti gruppi industriali di abbandonare il paese nel caso non venga risolta la questione energetica.

Non stupisce dunque più di tanto il cambiamento di rotta rispetto al piano di phase out annunciato lo scorso anno dall' allora premier Noda, che prevedeva la rinuncia al nucleare entro il 2040. Secondo quanto invece dichiarato poche settimane fa dal neo - primo ministro Shinzo Abe, non solo si fa sempre più concreta l'ipotesi di rimettere in funzione i reattori che verranno giudicati sicuri (anche se il dibattito su chi debba prendersi la responsabilità di questa decisione rimane tuttora aperto), ma anche quella di costruire nuovi impianti di ultima generazione.

L' affermazione alle urne di Abe d'altronde segna il ritorno al governo del Partito Liberal-Democratico, noto per essere, insieme alla burocrazia e ai big dell'industria giapponese, una delle colonne del triumvirato da tempo soprannominato "Triangolo di ferro". Sarebbe questa, secondo l'opinione comune degli analisti, l'entità che decide le principali politiche nazionali dal secondo dopoguerra in poi, comprese quelle energetiche (con il nucleare rigorosamente in prima fila). I solidissimi legami tra le diverse componenti sono storicamente favoriti dal cosiddetto fenomeno dell'amakudari (letteralmente "discesi dal Paradiso"), che permette ad alti funzionari statali di occupare, una volta terminato il proprio incarico pubblico, ruoli dirigenziali nelle imprese da essi stessi in precedenza regolate.

Proprio questa commistione ha portato ad una eccessiva rilassatezza e tolleranza nei confronti dei gestori degli impianti nucleari riguardo alla messa in sicurezza degli stessi (anche in caso di tsunami), che ha poi portato al disastro di Fukushima del Marzo 2011. Diversi alti funzionari sono stati costretti a dimettersi a causa degli scandali emersi dopo l'incidente. Per questo motivo il ritorno al nucleare, ipotizzato da coloro che in passato hanno spesso anteposto lo sviluppo economico alla sicurezza ed alla salute della popolazione locale, crea dei dubbi e alimenta le paure di gran parte della popolazione, ancora segnata da quanto accaduto a Fukushima e contraria ad un ritorno al nucleare.

Una delle maggiori lezioni a livello politico e sociale del disastro di Fukushima è stata proprio quella di ripensare e organizzare la governance del nucleare, nonché quella di operare in nome di una maggiore trasparenza e una maggiore apertura alla partecipazione pubblica nei processi decisionali. Riproporre il nucleare, seppur con impianti di ultima generazione, abbinandolo a schemi decisionali e di gestione arretrati nonché, come dimostra Fukushima, decisamente pericolosi, significherebbe non solo non aver tratto alcun insegnamento dal disastro del 2011 ma anche esporre parte della popolazione giapponese ad un nuovo (l'ennesimo) altissimo rischio.

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