[09/01/2013] News

Rischio e percezione del rischio: basta "sapere" per essere al sicuro?

Ma i laboratori scientifici sono posti sicuri? E i ricercatori hanno un'adeguata cultura del rischio? Le domande possono sembrare stravaganti, importune e persino provocatorie. Chi se non gli scienziati ha tutti gli strumenti per individuare, controllare e minimizzare i fattori di rischio ovunque, a partire dal proprio luogo di lavoro?

Ma a porsi queste domande è stato il Center for Laboratory Safety della University of California di Los Angeles (UCLA): uno dei pochi centri al mondo che studi la sicurezza nei laboratori dopo che, nel 2009, una ricercatrice con 23 anni di esperienza, la signora Sheharbano Sangji, è deceduta a causa di un incendio scoppiato nel suo laboratorio di ricerca, presso la prestigiosa università californiana. La vicenda fece molto rumore il fatto che il leader del gruppo di ricerca, il famoso chimico organico Patrick Harran ha dovuto rispondere in tribunale di quella morte. Ma il tema è diventato, negli Stati Uniti, ancora più scottante nel 2011, in seguito a un altro incidente, in un altro celebre ateneo, la Yale University, che ha causato la morte di un altro ricercatore.

È a questo punto che il Center for Laboratory Safety della UCLA decide di commissionare un'indagine per verificare quale fosse la percezione e la cultura del rischio nei laboratori scientifici americani, europei (soprattutto inglesi) e asiatici (soprattutto di Giappone e Cina). Una società specializzata, con il contributo della rivista Nature, ha distribuito migliaia di questionari. Realizzando così la più ampia indagine al mondo sulla sicurezza nei laboratori scientifici.  

Diciamo subito che la metodologia si presta a molte critiche. Le domande del questionario sono molte (circa cento) e non sempre ben definite. Ma, soprattutto, il campione non è casuale, per cui la sua rappresentatività del mondo della ricerca (un mondo dove ormai lavorano oltre 7 milioni di persone) non è elevata. Tuttavia le risposte sono state numerose (circa 2.400) e costituiscono almeno un punto di partenza per cercare di saperne di più.

I risultati sono , per molti versi, inattesi. Non tanto perché la gran parte dei ricercatori intervistati - l'86% - pensa di lavorare in un luogo sicuro. Ma perché quasi la metà (il 46%) dichiara di aver avuto personalmente almeno un incidente in laboratorio e più di uno su cinque (il 21%, per la precisione) dichiara di averne avuto più di uno. Quasi tutti hanno assistito a incidenti occorsi ad altri colleghi. 

C'è dunque una marcata discrasia tra i fatti (raccontati) e la percezione del rischio. Dove ha origine questa marcata discrasia tra fatti e percezione? Beh, da un lato dalla consapevolezza che il pericolo corso spesso non è stato grave:  la gran parte degli incidenti, per esempio un taglio, è di piccola entità e non ha avuto bisogno di cure mediche. Però altri incidenti denunciati sono stati piuttosto gravi e vanno dalle ustioni (col fuoco o con sostanze chimiche) ai morsi di animali (compresi serpenti velenosi).

C'è tuttavia un dato ancora più significativo. Il 42% dei giovani ricercatori intervistati dichiara di lavorare sempre da solo in laboratorio, il 30% di trovarsi solo molte volte nell'arco di una settimana e il 15% qualche volta. Le percentuali, nel caso dei dirigenti di laboratorio, sono un po' diverse: il 26, 28 e 18% rispettivamente. Le norme di sicurezza escludono che si possa lavorare da soli in laboratorio, proprio per evitare possibile conseguenze negativa per sé e per gli altri. Se ne ricava che una parte largamente maggioritaria dichiara di lavorare molto spesso in condizioni di rischio. Perché?

I ricercatori sostengono che «fa parte del gioco». La ricerca è un lavoro di frontiera e dunque si accetta di farla anche in condizioni di sicurezza un po' meno stringenti. Ma da molte altre risposte si ricava che questa condizione di rischio relativo dipende spesso sia dalla mancanza di norme adeguate (più negli Usa che in Europa e in particolare in Gran Bretagna) sia dalla carenza di formazione.

Questi risultati preliminari confermano quello che i sociologi del rischio sanno da tempo: la percezione  del rischio e, di conseguenza, i comportamenti più a rischio è bassa quando la condizione di pericolo riguarda se stessi, è controllabile in prima persona ed è il frutto di una scelta.

Ma confermano anche che la corretta cultura del rischio non è correlata in maniera stretta al livello di istruzione e neppure a una generica visione scientifica del mondo. Al contrario, è frutto di una formazione specifica. Va sempre e attentamente coltivata.

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