[23/11/2012] News

Le banche snobbano le commodities? La politica non stia alla finestra anche stavolta

Gli Stati Uniti hanno da tempo trovato il loro nuovo Eldorado energetico in casa propria, o almeno così sperano. La massiccia diffusione dello shale gas si sta dimostrando una manna per il fabbisogno energetico nazionale, almeno quanto si prospetta pericoloso per la lotta ai cambiamenti climatici e la tutela dell'ambiente. Il recente rapporto stilato dal Corporate Europe Observatory (Ceo) ci ricorda come «Lo shale gas è molto più dannoso per l'ambiente del gas naturale convenzionale», a causa delle tecniche estrattive radicalmente invasive necessarie per estrarre il gas in superficie.

L'Europa continua a rimanere restia ad affidarsi allo shale gas, ma non può impedire al mercato mondiale dell'energia di mutare. La sovrabbondanza di energia, dovuta alla crisi economica in corso (con una conseguente diminuzione della domanda) e dell'immissione di fiumi di shale gas sul mercato ha almeno avuto la conseguenza di frenare la corsa di prezzi. Non per tutti, però: gli italiani si accorgeranno di una diminuzione delle bollette forse in primavera prossima.

L'Autorità per l'energia sta adesso studiando un provvedimento per «trasferire il prima possibile alle famiglie, alle partite Iva e alle piccole imprese che non sono passate al mercato libero i cambiamenti di prezzo avvenuti sul mercato all'ingrosso», come riporta la Repubblica. Lo "sconto" è ipotizzabile intorno ad un 7-8%: non poco, per un Paese come il nostro, dove l'alto prezzo dell'energia è una costante.

Ma non è solo il mercato dell'energia ad essere in rivoluzione. La frenata della macchina economica mondiale, che prosegue ormai da quasi sei anni, comincia a lasciare qualche segno anche per quanto riguarda le strategie d'investimento dei top player della finanza. «Secondo la società di consulenza Coalition - osserva Sissi Bellomo sul Sole24Ore - nei primi nove mesi di quest'anno le dieci maggiori banche di investimento hanno ricavato 5,18 miliardi di dollari dalle commodities, il 20% in meno rispetto allo stesso periodo del 2011 e meno della metà rispetto al 2009. Da un lato, è diventato più difficile realizzare profitti: dopo il rally poderoso degli anni tra il 2004 e il 2008, i prezzi di molte commodities sono diventati stagnanti e in generale la volatilità si è ridotta, abbattendo le performance dei fondi e di una serie di prodotti indicizzati un tempo molto lucrativi. Dall'altro, i bilanci delle banche si sono deteriorati e una serie di nuove regole le ha costrette a diventare molto più caute nell'esposizione al settore».

Effetti causati dall'accordo Basilea 3, che «aumenta i loro obblighi di accantonamento». Negli Usa, dalla Volcker Rule, che «limita il cosiddetto "proprietary trading" (quello effettuato non per conto di clienti ma solo a fini di profitto)» e dal Dodd-Frank Act, che «punta a imporre un ridimensionamento delle posizioni aperte sui mercati dei derivati. La Federal Reserve, inoltre, ha ingaggiato una battaglia per ridurre la presenza delle banche di investimento sui mercati fisici delle materie prime (oggi alcune di loro possiedono centrali elettriche, petroliere, stoccaggi di carburanti o di metalli)». Tutte armi spuntate contro il gigante della finanza, ma che almeno hanno il merito di cominciare a spostare qualche equilibrio.

Una tale tendenza dovrà essere prima confermata nel tempo per rappresentare un reale cambiamento di rotta. Una definanziarizzazione delle commodities potrebbe però non rappresentare in sé una buona notizia. Quello delle materie prime è un settore dove si sono concentrati negli anni enormi interessi speculativi, il cui possibile abbandono del terreno di gioco sarebbe indubbiamente una vittoria per tutti coloro che confidano in una gestione più oculata e responsabile delle risorse che il pianeta ci affida, a partire da quelle alimentari. Se questo passaggio non fosse adeguatamente controllato, ci troveremmo di nuovo con una barca senza controllo, pronta a sobbalzare ad ogni imprevisto sulla rotta.

Se l'addio del pirata/speculatore lasciasse la nave senza timoniere sarebbe soltanto un altro fallimento per la politica internazionale. Nonostante gli interessi altalenanti della finanza, come è possibile leggere nell'ultimo rapporto Unep, una gestione oculata delle risorse (in un mondo finito, e con una popolazione in crescita) diventa fattore di sviluppo decisivo, determinante anche in una corretta valutazione della solvibilità e della solidità di ogni economia nazionale. Se davvero dalla finanza si sta aprendo uno spiraglio per un intervento di regolamentazione politica, non possiamo permetterci di rimanere indietro anche stavolta.

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