[19/11/2012] News

Emissioni: il fallimento del cap and trade. Soldi europei in fumo

Sono passati sette anni da quando l'Unione europea ha inaugurato il suo schema per il commercio interno delle emissioni. Un progetto che rientra nei suoi impegni per ridurre la produzione di gas serra responsabili dei cambiamenti climatici, secondo quanto sancito dal protocollo di Kyoto.

L'Ue è stato l'unico gruppo di Paesi ad attuare senza indugi un meccanismo di "cap and trade", ossia di tetto per il totale delle emissioni prodotte, ma con la possibilità di commerciare i permessi tra i vari attori del nuovo mercato. Il tutto con un aiuto non da poco: la Commissione europea ha regalato alle imprese gran parte dei permessi iniziali per la creazione del mercato, consentendo che si potessero "acquistare licenze" aggiuntive di inquinamento realizzando progetti di compensazione anche fuori dell'UE, i cosiddetti offset.

Il risultato è stato che il mercato non ha mai funzionato, poiché il prezzo dell'emissione di carbonio (evitata) è sceso in maniera costante per l'eccesso di permessi presenti in giro. Oramai il costo per tonnellata di carbonio sta sotto i 7 euro (ben lontano dai 30 ipotizzati anni fa dalla Commissione), un elemento che non rende appetibile, come invece si pensava, la realizzazione di impianti a minore impatto, quali quelli rinnovabili. Per altro la crisi economica nell'area euro ha ridotto la produzione di emissioni - unico caso avvenuto negli ultimi dieci anni - poiché da sempre queste vanno di pari passo con l'aumento del Pil, oggi in discesa. Paradossalmente questo decremento ha creato un eccesso di offerta ancora maggiore di permessi di emissione di cui nessuno ha bisogno. Da cui il crollo del prezzo sul mercato virtuale.

Un rompicapo non da poco per la Commissione europea che, avendo scelto la strada di un mercato pesantemente finanziarizzato, si è vista costretta a riunioni di emergenza per scodellare nuovi idee che lo aggiustassero. Quello che si potrebbe dire un bail-out, un salvataggio di questo meccanismo pur di non farlo morire, invece di ripensare l'intera strategia economica-climatica e magari tornare a idee meno basate sul mercato, ma più controllabili e fattibili, come la carbon tax.

Il rapporto della Commissione, presentato la scorsa settimana, avanza soluzioni tecniche e urgenti al problema, ma in realtà si discosta poco dalla strada intrapresa. Di fatto i tecnici di Bruxelles hanno elaborato vari strumenti per interferire come soggetto pubblico con il funzionamento del mercato al fine di drogare e sostenere un po' il prezzo dell'emissione evitata in futuro. Ma la Commissione non rimette neanche in discussione la più evidente falla nel sistema, ossia che le imprese europee realizzando dubbi progetti fuori dell'Ue possono creare nuovi permessi che poi entrano nel mercato, aggirando di fatto il tetto imposto. In questo modo i combustibili fossili si continuano a estrarre, importare e bruciare poi in Europa, , sussidiando il mantenimento in vita di impianti come centrali a carbone o raffinerie che andrebbero altrimenti chiuse e proprio quando le stime dell'agenzia internazionale per l'energia ci dicono che due terzi delle riserve fossili accertate dovrebbero rimanere nel sottosuolo se si vuole evitare che il riscaldamento del pianeta superi la soglia di non ritorno dei due gradi Celsius.

Per lo stesso motivo l'Europa - e l'Italia in primis - sta vivendo una nuova ondata "estrattivista", con centinaia di ettari di territorio e patrimonio marino minacciati da estrazioni di petrolio e gas convenzionale e non, e da nuovi impianti di stoccaggio, raffinazione e trasporto.

Ciliegina sulla torta, la Commissione europea stessa opera sui mercati finanziari collegati a quelli delle emissioni, per altro perdendoci anche soldi pubblici. Tra i vari aggiustamenti pensati negli ultimi anni, con il programma NER300 la Commissione si era impegnata a investire i proventi della vendita dei nuovi permessi di emissione per progetti a basso impatto (pur includendo tra questi nuovi impianti a carbone con la tecnologia ancora non provata della cattura e sequestro del carbonio). Ebbene, nel 2012 la Commissione ha venduto 200 milioni di permessi al prezzo unitario di 8,05 euro, lievemente sopra al prezzo di mercato, per un totale di 1,61 miliardi di euro. Ma poi, con le commissioni che si è presa la Banca europea per gli investimenti che ha effettuato il collocamento, più di 100 milioni si sono persi in vari rivoli. Si aggiunga poi che il prezzo sul mercato dei contratti derivati basati sui permessi di emissioni - sì, avete capito bene, hanno già creato anche i derivati sul carbonio! - è salito a più di 9 euro alla data di dicembre 2013. Cosicché la Commissione ha perso dei soldi rispetto a quanto poteva ottenere. Il casinò della finanza si innesta su quello climatico, e questi sono i risultati. Perché allora non azzerare tutto, e tornare ad una sana carbon tax che punisca gli inquinatori e i mercati e non li premi come succede adesso?

Torna all'archivio