[05/11/2012] News

Cadono i rami della pubblica amministrazione: ma le nuove province che funzioni avranno?

Ricorsi costituzionali e sindaci sul water non sembrano certo preludere certo ad una finale felice per le province, che devono vedersela ora con tante grane, compresa la scelta dei capoluoghi.

C'è chi considera questo approdo tutto sommato soddisfacente, nel senso che poteva anche andar peggio, viste le premesse. Molto soddisfatto il ministro che ha voluto anche in questo caso sottolineare che così ci siamo messi al passo con l'Europa dove la maggior parte dei paesi degli enti intermedi non sa che farsene. Anche senza essere esperti di vicende istituzionali è difficile non notare che in tutto questo polverone si è parlato di censimenti di residenti, di chilometri quadrati di territorio, di chi può vantare storie lontane anche senza scomodare i celti e le polle del Po, ma non di funzioni, specialmente in rapporto agli assetti istituzionali nazionali.

Certo, può non sorprendere, visti i precedenti, ossia quando si è cominciato con la liquidazione dei consigli di quartiere e non molto dopo delle Comunità montane. Gli uni e le altre tolte di mezzo perché bisognava risparmiare, tagliare i costi e gli sprechi anche in situazioni dove non si annidavano certo gestioni spericolate. Poi sono arrivate le province, che stanno in Costituzione.

Ma la musica non è cambiata e si è detto che erano inutili e gli sprechi vanno quindi eliminati. Si disse anche da troppe parti di sbrigarsi, perché che le province dovessero essere abrogate sembrava di fatto deciso da tempo: era e resta una balla, perché proprio con le regioni l'ente intermedio cambiò ruolo diventando a tutti gli effetti ente soprattutto di programmazione tra regioni e comuni. Per questo -erano i tempi di la Malfa e Berlinguer - le province non furono abrogate ma riformate. Cosa è cambiato? Zoggia su l'Unità dice che la pianta dell'amministrazione non poteva non essere sfrondata. Ma quella pianta non riguarda solo le province mentre l'operazione riguarda solo quelle, al punto che non saranno più elettive. Non mi sembra francamente una buona pota. Che oggi le province assumano un ruolo difficile da definire - e non solo per i costi - proprio nel momento in cui sulle regioni si addensano nuvole inquietanti  e l'accusa di essere state accentratrici ossia di non essersi avvalse come avrebbero dovuto delle province e dei comuni suona persino beffardo.

E siccome l'appetito vien mangiando ecco il Disegno di legge sul titolo V, che mazzola regioni ed enti locali ignorando che il governo del territorio è entrato in crisi perché il centro non sa governare le sue crescenti competenze nazionali e comunitarie e la dimensione locale a sua volta viene tagliata fuori indotta dal campanilismo di cui abbiamo non pochi esempi proprio in queste settimane. Un campanilismo che confinerà sempre più i comuni singoli e associati in ambiti e che ben poco consentirà di incidere nelle scelte regionali e nazionali.

Il rischio ora è quello che in nome - tanto per cambiare - della lotta alla casta e agli sprechi si ridisegni un assetto istituzionale che anziché rimediare ai limiti del Titolo V li accentui, riproponendoci uno Stato capace di darci quello che proprio Stato, regioni ed enti locali in questi 11 anni non sono stati capaci di darci. Per quanto severa possa essere la pagella per regioni e enti locali non potrà sicuramente essere  peggiore di quella dello Stato, che tutto può permettersi tranne di dare lezioni e pagelle.

Quello che ora urge perciò è che non si ripeta quello che accaduto nel recente passato e cioè che foglia a foglia lo Stato si faccia fuori il carciofo costituzionale. Ecco perché bisogna tornare a tirare le fila di quella politica di programmazione anche a livello regionale in cui spesso sono prevalse spinte, sollecitazioni e decisioni centralistiche che hanno pregiudicato anche normative e impegni regionali in ambiti delicati delle politiche ambientali.

*Gruppo San Rossore

 

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