[18/10/2012] News

La produttivitą spiegata in quattro, "semplici" punti

Iorio: «Troppa flessibilitą e incertezza dei lavoratori la peggiora soltanto»

Ad un passo dall'accordo. Queste erano le premesse, nella serata di ieri, circa l'intesa sulla produttività da stilare tra le parti sociali - imprese da una parte, sindacati dall'altra. Il documento doveva essere pronto già nei giorni scorsi, in tempo perché il premier Mario Monti non fosse costretto a scorrerlo soltanto una volta già in volo per Bruxelles, dove atterrerà oggi per partecipare al Consiglio Ue. Per Monti, adesso, questo è un problema che non si pone: il tavolo sulla produttività si è chiuso stamattina senza alcun accordo.

«Il confronto proseguirà solo nei prossimi giorni», ha confidato Giorgio Guerrini, presidente di Rete imprese Italia. Ieri sera Cgil, Cisl e Uil avevano fatto sapere di avere raggiunto una posizione «sostanzialmente comune» da proporre al vertice delle associazioni datariali (Confindustria, Rete imprese Italia, Abi, Ania, Alleanza per le cooperative), previsto per stamani. Non è bastato, ma forse è soltanto un bene.

A meno di clamorosi passi avanti al momento di trovare la quadra, la qualità del dibattito è stata tale da consistere in un esercizio di stile lontano dalla realtà che dovrebbe essere affrontata per guadagnare l'ambito aumento di produttività del lavoro, in Italia. Si prova a trattenere con le unghie e con i denti i promessi 1,6 miliardi di euro dal governo con la legge di stabilità - che potrebbero evaporare senza un accordo tra le parti - ma a miglioramenti strutturali ancora non si pensa.

Siamo molto lontani da intervenire nel merito di quella «produttività di sistema» evocata anche dal leader Cgil, Susanna Camusso, non molto tempo fa. Come riporta il Sole24Ore, infatti, ieri anche i sindacati si sono visti costretti a discutere di «un nuovo equilibrio contrattuale, spostando il baricentro sui contratti aziendali, permettere una maggiore flessibilità di orario, consentire alle categorie di tenere conto, nei rinnovi, della situazione economica». Niente a che vedere coi problemi posti dalla mancanza di produttività di sistema.

Perché è quella che manca al Paese, non la voglia di lavorare degli occupati (quelli rimasti). Roberto Iorio, economista dell'università degli Studi di Salerno contattato per un approfondimento sul tema da greenreport.it, ha sottolineato che «l'Italia soffre da anni di una scarsa crescita, già da prima della tempesta finanziaria che si è abbattuta sull'Europa. Il calo della produttività è ormai conclamato. Ebbene, qualunque manuale di macroeconomia pone in relazione crescita e produttività con gli investimenti in capitale umano».

Il vero problema è che in Italia «gli investimenti in istruzione e ricerca sono molto bassi. Quindi il "rebus" è facilmente risolto: in Italia la produttività è bassa soprattutto perché si investe poco in istruzione e ricerca.  A questo nesso, che dovrebbe essere palese e sotto gli occhi di tutti, si gira spesso intorno e si cerca in mille diverse cause la ragione della scarsa crescita e della scarsa produttività. Se mai l'Italia avrà la capacità, la volontà politica di fare investimenti di medio-lungo periodo in istruzione e ricerca, la risalita della produttività avverrà certamente, e la strada della crescita economica sarà ritrovata. Quindi non il costo del lavoro et similia come causa di scarsa produttività, ma carenza di quantità e qualità di capitale umano e ricerca.

Né è strutturalmente rilevante la (presunta?) scarsa flessibilità del mercato del lavoro. Semmai, in Italia c'è troppa flessibilità. Nel senso che la sovrabbondanza di lavori temporanei, la crescente incertezza dei lavoratori nella possibilità di conservare il posto di lavoro hanno queste tre conseguenze: a) spingono i lavoratori a ridurre i consumi più significativi (se non ho certezza dei redditi futuri non compro casa, auto, ecc.), da cui il calo della domanda aggregata b) disincentivano i lavoratori da un elevato grado di impegno per il lavoro (perché impegnarmi molto per un'azienda che probabilmente, indipendentemente dal mio rendimento mi manderà via tra pochi mesi?), con conseguente calo della produttività; c) disincentivano le imprese dall'investire in formazione dei lavoratori (perché formare personale che rimarrà nella mia azienda solo pochi mesi?), con conseguente - ancora - calo della produttività».

A chi invoca un'ulteriore intervento di limatura per i diritti dei lavoratori, puntando in particolar modo sulla "flessibilità" (come se non ce ne fosse già abbastanza), sarebbe bene ribattere ogni volta quali sono - all'interno di una politica industriale degna di questo nome - le quattro imprescindibili leve da muovere per riattivare la produttività del sistema-Paese: «maggiori investimenti pubblici in istruzione; maggiori (o più efficaci) incentivi alla R&S in impresa; incentivi alle imprese per la stabilizzazione del lavoro; incentivi alle imprese per la formazione dei dipendenti». "Facile", no?

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