[24/09/2012] News

Da governo-Fiat solo fumo sulla demotorizzazione in corso. E la paura per incentivi sbagliati

Delocalizzazioni casalinghe: la nuova strategia di mercato portata avanti dalla Fiat - alfiere il solito Marchionne - potrebbe essere riassunta in un ossimoro. Dato che il mercato europeo dell'auto non tira più come una volta, e non da poco tempo, è necessario puntare su altri bacini di consumatori, ma senza smantellare (non del tutto, almeno) la produzione in Italia: dovranno manifestarsi nel Bel Paese le condizioni per rendere competitiva l'attività produttiva nostrana, ma i prodotti navigheranno poi verso altri lidi. Dove? Oltreoceano, in particolare. "Il più americano" dei manager italiani ha ovviamente un occhio di riguardo per gli Usa, ma anche il Sudamerica si presenta un boccone più che appetibile, con le sue economie in rampa di lancio e la voglia di un'occidentalizzazione dei consumi.

Nonostante le rassicurazioni da parte del governo, dopo l'incontro di sabato con i vertici Fiat già c'è chi ventila di una possibile riduzione dell'Irap per avvantaggiare le esportazioni. D'altronde, lo stesso Marchionne, nei giorni scorsi, ha risposto al ministro per lo Sviluppo circa la fervente attività di Fiat in Brasile che «per lo stabilimento nello Stato di Pernambuco, in corso di costruzione, la Fiat riceverà finanziamenti sino all'85%», oltre ad ulteriori benefici fiscali «per un periodo minimo di 5 anni». Forse dimenticando gli ingentissimi aiuti riversati sull'azienda nel corso dei decenni, lo stesso quadro normativo europeo, riconosce Marchionne, ora non permette «simili condizioni di finanziamento», ma la differenza più importante è un'altra, tanto rilevante quanto quasi lapalissiana. Il Brasile è un Paese in via di sviluppo, ed il suo mercato dell'auto in ascesa. La stessa cosa non può certo dirsi per l'Italia. Massimo Nordio si è sbilanciato tanto da affermare che «Siamo in piena demotorizzazione. Per la prima volta in Italia si è ridotto il parco auto circolante». Dato che, proprio in Italia, Nordio siede al vertice di un'industria come Volkswagen, c'è da credergli.

Non può non saperlo anche Marchionne, che oltretutto, in un mercato in contrazione, perde quote anche rispetto agli altri competitor. Infatti, temporeggia. Allontana il momento dei piani per gli stabilimenti italiani a fine ottobre, giorno di presentazione dei risultati trimestrali dell'azienda. Spera - in veste di presidente Acea (l'associazione delle case automobilistiche europee), come riporta il Corriere della Sera - in un «piano dell'Unione Europea per ridurre la capacità produttiva di auto nel nostro continente (gli stabilimenti coprono il 65% delle loro capacità), chiudendo degli impianti ma sostenendo i licenziati con un piano di incentivi economici».

Un vertice europeo in tal senso è più che mai urgente. L'auto è in declino, e alcuni impianti molto probabilmente chiuderanno davvero. Ma qualcosa è ancora possibile fare, e lo Stato, e l'Europa non possono tirarsi indietro. L'assistenzialismo all'imprese non paga, ma al contempo, senza un intervento intelligente del settore pubblico, il mutamento in corso sarà un bagno di sangue per i lavoratori.

Moltissimo dipende dalla volontà di rimettersi in gioco ed innovare: «Dipende dall'atteggiamento degli imprenditori e delle istituzioni - scrive sul Tirreno l'economista Mauro Lombardi - Il manifatturiero del futuro sarà totalmente diverso da quello attuale, sopravviveranno solo le aziende che producono beni con intelligenza incorporata e solo gli imprenditori consapevoli hanno accettato la sfida, hanno investito e hanno cercato di reinventare se stessi e le proprie produzioni». Quell'esigenza di un «restyling complessivo dell'auto in Italia» accarezzato anche dal Sole24Ore deve iniziare a prendere corpo, in quanto rappresenta all'interno del comparto automobilistico l'unico «scenario per il quale mettere in campo un piano di incentivi mirati alla ricerca e alla produzione ecosostenibile». Disegnando quindi un automotive attenta non solo alla riduzione delle emissioni o dei consumi dei mezzi, ma che abbracci un più attento utilizzo del flusso di materia all'interno delle catene produttive. Che guardi all'utilizzo di materie prime seconde; che si inserisca in un progetto più ampio di mobilità sostenibile.

Per il resto, occorre la consapevolezza di stare imboccando la fine di un'era. Come osserva sull'Unità il sociologo Luciano Gallino, «Non si può pensare di produrre all'infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell'auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell'occupazione l'auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce, chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro», ovvero dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l'energia... Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l'Unione Europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l'industria».

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