[20/09/2012] News

Crisi & dintorni: se l'italiano medio riscopre il valore sostenibile della "comunità"

Ha molto a che vedere con la sostenibilità sociale e ambientale quanto è emerso dalla ricerca sulla comunità elaborata da Censis e Coldiretti. Se non fosse che a questa nuova realtà a marce e consumi assai ridotti rispetto agli anni passati, ci si è arrivati sotto la pressione della più grave crisi dopo quella del '29 (e c'è chi dice che sia persino peggiore), ci sono aspetti per i quali si potrebbe quasi essere contenti. In particolare - senza la retorica del ritorno alla campagna -  l'emerso «desiderio di una comunità in cui vivere bene» appare molto più "salutare" di quella ricerca spasmodica del successo personale e dell'apparire registrata in passato. Non sembra insomma prevalere alcuna legge della giungla dove in stato di crisi di risorse economiche si cerca di superarsi a vicenda per sopravvivere, bensì si ricerca una soluzione nella "comunità". Una vita non più "al massimo" o "spericolata" come negli anni 80, ma una comunità appunto dove la maggioranza degli italiani (l'85,2%) «nel raggio di 15-20 minuti a piedi dalla propria abitazione fa la spesa alimentare quotidiana, pratica le attività spirituali (76,6%), ha il proprio medico di medicina generale (71,6%), fa la spesa non alimentare (65,6%), ha la scuola per i figli o i nipoti (65,2%), dispone di servizi sanitari come laboratori di analisi e ambulatori (56,9%), trova i centri in cui praticare la cura del corpo, dalle palestre alle piscine, ai parchi per fare jogging (54,2%)». Mentre appare ancora spezzato invece «il legame tra luogo di residenza e luogo di lavoro, perché solo poco più di un terzo degli italiani lavora a un massimo di 20 minuti a piedi da casa». Sono statistiche, è ovvio, e viene persino da dire che c'è una certa pigrizia nel cercare tutto vicino a casa, ma c'è molto di sostenibile in tutto questo. Una comunità che vive e "sente" il suo territorio, ad esempio, a gioco lungo non può non rispettarlo. Certo bisogna poi emanciparsi, ma questo non vuol dire necessariamente allontanarsi, tanto meno separarsi. E' un salto culturale. L'esatto opposto di guardare al mondo non con l'idea che il mondo - nell'era della globalizzazione - debba arrivare a casa nostra, attraverso prodotti che fanno il giro del pianeta. Certo, è da ingenui pensare che si possa tornare indietro, ma un modello di sviluppo diverso, che per noi vuol dire solo più sostenibile, passa anche da qui. Merci che "camminano" poco; alimenti esotici utilizzati con parsimonia; manifattura legata ai territori, senza protezionismi imposti, ma guidati dal raziocinio della riduzione dei consumi di energia e di materia.

Sorvoliamo sulla questione familiare e della necessità/voglia di restare vicini ai genitori da parte di figli adulti, perché troppe questioni pesano su questa caratteristica molto italiana ma non solo (in Francia almeno hanno lo stesso fenomeno), così come non entriamo nella questione (molto modaiola...più che sostenibile) dell'aperitivo, contro cui comunque non abbiamo niente.

Ci pare, invece, interessante la riflessione che emerge sempre dal rapporto secondo il quale «la crescente omogeneità dei consumi globali non ha scalfito la tipicità dei territori italiani, intesa come l'insieme di caratteri che distinguono un'area, connotandola agli occhi dei residenti e del mondo intero. Il 94% degli italiani ritiene che il territorio della regione in cui vive ha una sua tipicità che lo distingue dagli altri. Ne sono maggiormente convinti i soggetti con livelli di istruzione più elevati (96,9%) e i residenti nei comuni più piccoli (95,1%). La caratteristica distintiva del territorio regionale consiste per il 60% nel patrimonio culturale, storico e artistico; per il 57% nel cibo e nel vino; per il 53% nel paesaggio; poi nel dialetto locale (42%), nell'identità e nel senso di appartenenza (26%), nell'attività di un settore particolare, ad esempio un festival o un evento sportivo (22%). Per il 62,5% le caratteristiche distintive regionali sono molto o abbastanza valorizzate». Ai tempi dei non luoghi, questi dati fanno riflettere. Non tanto per un ritrovato patriottismo o campanilismo, quanto per un riconoscimento della diversità. Che non è certo un disvalore. Le comunità aperte sono quelle che si confrontano non quelle che si omologano. Infine il nuovo binomio "cibo e web" sempre per fare comunità di cui parla il dossier a un primo sguardo si potrebbe archiviare con l'italianissimo "ma che ce frega ma che c'emporta...", ma almeno l'aspetto della «nuova funzione sociale del cibo, perno di nuova relazionalità sia materiale (nei territori) che virtuale (nelle piattaforme telematiche e mediatiche)» riavvicina l'uomo (in questo caso l'italiano medio) a quella dimensione "terrena" necessaria per ristabilire i rapporti "umani". Che lo si faccia attraverso le macchine in questo caso è un valore aggiunto e la dimostrazione che è sempre l'uso che ne fai degli strumenti e non gli strumenti in sé ad essere portatori o meno di innovazioni o arretramenti.

Sorge però un piccolo-grande problema: i soggetti con livelli di istruzione più elevati sono anche quelli che viaggiano di più e sono anche i "cervelli in fuga", le persone (soprattutto i giovani) che sarebbero destinate a diventare i leader delle comunità locali e che invece, come dimostrano le tristi vicende politiche ed amministrative che viviamo, spesso tornano da turisti nelle piccole comunità di origine, delle quali spesso hanno un'idea mitica e nostalgica, non più reale ma confortante, come i migranti italiani del '900 e i migranti del sud del mondo del 2000.

L'Italia, dunque, sembra in bilico tra nuove virtù e parsimonia da crisi: qualcuno per scelta, molti (i più crediamo) per necessità. Ma il bengodi dei consumi è probabilmente alle nostre spalle e bisognerà pensare a come trasformare la virtù in stile di vita e la ritrovata misura in metro per un futuro più equo.

La crisi dunque sembra aver riportato gli italiani con i piedi per terra. Non è un granché come lezione da imparare dalla crisi, ma tra le tante conseguenze negative la riscoperta della comunità può essere un buon punto di partenza.

 

 

Torna all'archivio