[12/09/2012] News

La rivolta salafita in Libia. Ovvero, quando l’Occidente continua a ripetere gli stessi errori

Il massacro di Bengasi e i disordini del Cairo: nuovi colpi del fanatismo alle “primavere” arabe

Quello che sta accadendo in Libia, con l'assalto e l'incendio della sede di rappresentanza Usa e l'orribile morte dell'ambasciatore Chris Stevens, di un funzionario e di due marines soffocati dal fumo, è l'ennesimo frutto avvelenato di una "liberazione" della Libia dalla dittatura di Muammar Gheddafi che ha pensato più al petrolio che alle conseguenze. Più volte su greenreport.it abbiamo scritto del pericolo della tribalizzazione e della rinascita dell'integralismo salafita che erano stati tenuti a bada da un regime "laico" odiato dalle monarchie waabite del Golfo.  I giornali libici scrivono che tra i dimostranti che hanno assalito la sede diplomatica statunitense a Bengasi, la città martire della "rivoluzione" libica ma anche quella più tradizionalista, «Vi erano membri della milizia islamica Ansar Al-Sharia», probabilmente si tratta degli stessi tagliagole e dei loro complici che sono tornati dall'Afghanistan grazie all'aiuto del Qatar (e della Cia) e che, con le tasche piene di dollari e con mitra nuovi di zecca,  giurarono sulle barricate anti Gheddafi di essersi convertiti alla democrazia.

Un testimone ha detto al Libya Herald che «I manifestanti erano tutti salafiti che hanno attaccato l'edificio con l'intento di massimo danno, avevano con loro armi ed Rpg. Tra di loro c'erano membri della milizia islamista Ansar al-Sharia. Gli scontri feroci tra loro e le forze di sicurezza sono durati per cinque ore». 

Il portavoce del Comitato supremo per la sicurezza di Bengasi,  Abdel-Al-Monen Hurr, ha confermato «Feroci scontri tra l'esercito libico e una milizia armata davanti al consolato degli Stati Uniti. Le guardie di sicurezza statunitensi all'interno dell'edificio hanno sparato contro i miliziani mentre stavano cercando di entrare e di attaccarli».

La Reuters ha riferito che dopo l'attacco gli estremisti hanno saccheggiato attrezzature, compresi i condizionatori d'aria, scrivanie e sedie e persino lavatrici. All'inizio di giugno, una bomba era esplosa davanti all'ufficio di rappresentanza Usa in un attacco che era stato visto come rappresaglia per l'uccisione da parte di un drone americano di  Abu Yahya al-Libi, il vicecomandante libico di Al-Qaeda. La stessa Al-Qaeda ha subito rivendicato l'attacco al consolato Usa di Bengasi e l'uccisione deli americani.

Che tutto sia cominciato, come ai tempi della maglietta anti-islamica esibita dal leghista Calderoli, per un film sulla vita del profeta Maometto, prodotto da copti egiziani emigrati negli Usa, e ritenuto offensivo per l'Islam, è il segnale di quanto poco gli occidentali abbiano capito mentre intervenivano, platealmente o sotterraneamente, per "indirizzare" le primavere, le rivoluzioni ed i colpi di Stato arabi.

Il disastro del Mali, dove l'intervento armato della Nato in Libia ha avuto come risultato quello di riempire di armi gli indipendentisti tuareg  presto spazzati via dal califfato degli integralisti islamici legati ad Al Qaeda del Maghreb islamico, potrebbe essere nulla di fronte a quel che può accadere in Egitto, il più popoloso ed importante Stato arabo, se gli estremisti musulmani decidessero di chiudere i conti con la comunità copta che è il 10% della popolazione.  Al Cairo dove i manifestanti hanno già tentato di superare la recinzione dell'ambasciata americana, la rabbia potrebbe rivolgersi contro i cristiani colpevoli di appartenere alla stessa confessione dei copti che hanno "offeso"  Maometto con il loro film che nessuno vedrà mai in un Paese musulmano.

Dalla Tunisia all'Egitto dove i fratelli musulmani hanno già tradito le speranze di democrazia e giustizia dei giovani rivoluzionari, dalla Libia divisa alla Siria che annega nel sangue di una guerra civile dove è sempre più difficile distinguere i "buoni, allo Yemen piegato dalla fame ed ancora diviso da tribalismi, indipendentismi e settarismi religiosi, il mondo arabo vive una transizione pericolosa nella quale in controluce si intravedono i vecchio poteri all'opera, i vecchi giochetti di occidentali, russi, cinesi ed iraniani, il nuovo protagonismo delle monarchie assolute del Golfo che puntano ad instaurare  regimi islamisti "puri" mentre continuano a professare la fedeltà verso gli Usa e l'Europa. Un film già visto in Afghanistan ed in Iraq che il pretesto del  film copto-americano potrebbe trasformare nuovamente in una ingestibile, tragica e mortale realtà.

Ma il campo di battaglia stavolta non sembrano le montagne ghiacciate e polverose dell'Afghanistan o i deserti e le oasi irakene, sono le città, i cuori e i cervelli degli arabi, sono gli uomini e le donne impauriti dalle stragi irakene e dalla mattanza siriana. Gli attacchi alle ambasciate americane sono il segale che dietro le primavere e le rivoluzioni arabe, arrampicati senza rischio sulle spalle dei ragazzi e dei combattenti, ci sono forze modernissime che vogliono spingere quelle primavere nell'inverno di un medioevo islamico, forze alle quali si contrappone un integralismo di altro segno, in un gioco di specchi internazionale che, con la scusa e la paura dello scontro di civiltà, vuole rendere impossibile ogni progresso, ogni rinascita araba che non può essere ritorno al passato.   

A qualcuno, a molti, servono popoli arabi prigionieri dell'estremismo e dell'odio, per dimostrare che niente cambia, niente può essere cambiato e che la primavera è troppo scandalosa e colorata per non farla appassire alla cupa ombra della predicazione salafita e degli eterni giochi della geopolitica mondiale. 

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