[09/08/2012] News

Dopo cinque anni di crisi... once more unto the breach, dear friends, once more

Dopo cinque anni di crisi che più di tutto hanno disoccupato, impoverito e per questo depresso milioni di persone e annichilito anche quelli che speravano che almeno lo shock servisse a risvegliare le coscienze, a suonare a morto è soprattutto la politica. Neppure una sempre più evidente dittatura dei mercati ha scatenato una ‘rivoluzione' da parte dei governi che anzi, tranne qualche rarissimo smarcamento tattico sostanzialmente a parole, hanno solo cercato di adeguarsi alle leggi della finanza. Con programmi lacrime e sangue per i cittadini praticamente imposti direttamente dalle banche e da quel sistema che, come minimo, è stato parte integrante dell'esplosione e della prosecuzione della crisi.

Un gattopardismo sul "da fare" per cambiare il modello di sviluppo economico che giustifica ampiamente ciò che oggi Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini scrivono su Repubblica nell'analisi sui guai causati dallo spread: «è indispensabile definire una regolazione del settore finanziario che impedisca ad un numero limitato di grandi banche e fondi d'investimento di esercitare una vera e propria dittatura sui mercati e un'influenza sulla politica dei governi. Non si capisce perché, diversamente dal mercato del lavoro, la finanza non sia stata ancora sottoposta ad una nuova regolazione mondiale».

Davvero non si capisce, o meglio si capisce eccome visto che appunto la politica intesa come governo della polis non si è nemmeno posta il problema di come riguadagnare "terreno" nei confronti dei mercati. Bensì ha solo deciso, o preferito per inerzia, di assecondarli spostando il "da fare" tutto sulle spalle dei cittadini. A loro sì che gli si è cambiata la vita. A loro sì che si sono chiesti i sacrifici. Così come sacrificate sono state le imprese a cui si è deciso di non far credito (oltre a continuare a complicargli la vita con una burocrazia impossibile). 

Mentre, per contro, le lacrime non sono state fatte scendere agli istituti bancari, né agli hedge found, né ai trader rei di aver creato e venduto derivati spacciati come investimenti sicuri. Come ricorda l'Ansa, l'avvio della crisi è stato come uno tsunami, una tempesta perfetta: tutto iniziata con l'implosione dei bond 'subprime' (garantiti da mutui ad alto rischio) e ben presto estesa alle banche (con il crac Lehman), arriva a coinvolgere il nocciolo duro del sistema economico, precipitando Usa ed Europa nella peggior recessione dagli anni Trenta a cui segue una ripresa lenta, irregolare, non sufficientemente sorretta da politiche economiche azzeccate in gran parte del mondo.

Così, a balzi, si arriva ai giorni nostri. Nei quali si può tranquillamente affermare che dopo cinque anni la crisi è stata ampiamente "sprecata" vanificando così anche la speranza appello di Nouriel Roubini e Stephen Mihm. I due noti economisti che due anni fa concludevano il loro "La crisi non è finita" affermando che «se dilapidiamo l'opportunità che la crisi ci ha dato e non attuiamo le riforme necessarie, non faremo altro che piantare i semi di una crisi ancora più distruttiva. Sprecare quell'opportunità sarebbe tremendo, anzi tragico». E in quanto a tragedia la Grecia sia per storia che per attualità ne sa qualcosa, come la Spagna e come noi italiani.

Più volte abbiamo detto che sono due i livelli che devono essere attaccati per almeno cercare un'exit strategy, espressione non a caso sparita del tutto dalle pagine dei giornali dopo che nelle prime fasi della crisi tutti sembravano averne una a portata di mano, ovvero uno di respiro come minimo europeo, l'altro di respiro nazionale.

Il primo è chiaro che non consista nel fare i compiti a casa, ma nel riscrivere i patti dell'Unione per un modello di sviluppo diverso dove i mercati sono al servizio della comunità e non viceversa, così da costruire un nuovo welfare; il secondo si sostanzia nel tentare di ripartire da una politica industriale "interamente ecologica" per dirla alla Bersani sapendo che bacchette magiche non ce ne sono e i tempi sono quelli lunghi.

Ma per fare l'uno e l'altro serve quella che purtroppo al momento è la risorsa più scarsa, per non dire del tutto esaurita, ovvero la politica. Non un partito o un leader, bensì la politica intesa appunto come governo della polis che - come dicevamo prima - riguadagna "terreno" nei confronti dei mercati. E lo può fare solo agendo sulle due leve possibili che sono il tempo e lo spazio. E lo può fare solo se ha la capacità di farlo, che significa "potere".

Il tempo per elaborare e analizzare i fenomeni senza essere travolti e lo spazio dell'agire.

Nella guerra contro la dittatura dei mercati - non contro il mercato - intanto si deve cambiare il "terreno" perché quello attuale - diciamo ‘digitale' - non può non vedere la democrazia soccombere. Cambiata location si può cambiare anche partita e quindi regole riguadagnando così lo spazio di azione. Per far questo tuttavia servono governi forti e cooperanti, che includono e solidarizzano in nome e per conto della sostenibilità ambientale e sociale.

Insomma se siamo, come siamo, in guerra, bisogna mettersi l'elmetto e colpire di spada piuttosto che di fioretto. Se in Europa per calmierare i mercati si parla di un big bazooka, qualche cosa vorrà pur dire. Insomma, per dirla alla Enrico V di shakespeariana memoria "Once more unto the breach, dear friends, once more".

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