[01/08/2012] News

Ferroni (Infn): «Minimizzati tagli a ricerca. La disgrazia rimane ma c’è un’altra strada»

«Serve autonomia e una vision politica che la colleghi all’industria»

I tagli a istruzione e ricerca sembrano un must tutto italiano quando arriva l'ennesimo giro di vite ai conti pubblici. Si parla di rilanciare la crescita, ma si inibiscono le potenzialità del capitale umano. Secondo dati Ocse, nel nostro Paese il tasso di rendimento privato dell'istruzione si aggira attorno al 9%, mentre quello sociale è stimato al 7%: un bello stacco rispetto al tasso d'interesse offerto da un conto in banca. Eppure, il macrosettore della conoscenza è sempre in prima fila in caso di sforbiciate.

Un esempio eclatante in tal senso riguarda l'Infn, l'Istituto nazionale di fisica nucleare: dopo le dovute celebrazioni nazionali per il ruolo centrale ricoperto dall'Istituto nella scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra, nella prima versione della spending review era colpito con la maggiore durezza.

«La scienza è come un albero, una volta tagliato ci vogliono vent'anni per farne crescere un altro»: il commento del premio Nobel Carlo Rubbia è emblematico del ruolo fondamentale che anche a greenreport.it attribuiamo a ricerca, istruzione e cultura per uno sviluppo sostenibile del Paese. Un ruolo che troppo spesso non è sotto i riflettori quanto meriterebbe: per questo abbiamo contattato Fernando Ferroni (Nella foto), presidente Infn, per un approfondimento sul tema.

Partiamo dai dati. Per l'Istat, nel 2009 la spesa per R&S intra-muros sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni non profit e università risulta pari complessivamente a 19,2 miliardi di euro - l'1,26% del Pil - quando la strategia Europa 2020 fissa l'obiettivo di un 3% europeo: siamo abbondantemente indietro nella tabella di marcia. Abbiamo superato un punto di rottura?

«La media europea si muove già attorno al 2%. Non vedo però una particolare discontinuità, quello che lo Stato italiano investe in ricerca è poco, ma più o meno sempre lo stesso; sarebbe anche ingiusto dire che c'è stata una grande diminuzione. È il contributo dell'industria ad essere molto più basso rispetto all'Europa, quando in genere Stato ed imprese vanno di pari passo. L'industria italiana è fatta in gran parte da piccole e medie imprese, dalle quali, prese singolarmente, non è possibile pretendere chissà quali investimenti in ricerca e sviluppo.

Adesso si parla di distretti industriali, smart city. Parole nuove che però credo puntino nella stessa direzione: ci devono essere dei luoghi dove trasferire conoscenza all'industria. Poi le imprese competeranno dove vorranno, ma occorre una sintesi tra cooperazione e competizione. Quella che è mancata è una vision da parte della politica, una volontà di incoraggiare forme di aggregazione».

Ieri la spending review ha incassato la fiducia in Senato. La bozza conteneva una sforbiciata per l'Infn del 3,78% quest'anno e del 10% nei successivi. Dopo le richieste per un rientro dei tagli, quali prospettive si aprono per la ricerca italiana e per l'Infn in particolare?

«La disgrazia non è stata riassorbita, ma è stato dato un maggiore grado di libertà per una minimizzazione potenziale del danno per la ricerca. Per quanto riguarda prettamente la questione pecuniaria il taglio del 2012 è infatti rientrato, e per il 2013-2014 è affidato al Miur (Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, ndr): non c'è più una tabella di tagli già fissati, ente per ente. Almeno, così ci può essere una discussione sul cosa fare, un piano concordato per il rientro della spesa. Non mi pare però ci sia alcun cambiamento per quanto riguarda il taglio del 10% del personale tecnico e amministrativo, e la riduzione del turn-over del personale al 20% al triennio 2012-2014, al 50% nel 2015 e al 100% dal 2016: per quattro anni non ci sarà sostanzialmente nessun ricambio. E se la ricerca non si può fare senza soldi, figuriamoci senza ricercatori».

Non si può certo dire che il problema dei sistematici tagli alla ricerca, in Italia, sia dettato dalla scarsa qualità dei ricercatori. E ci stupiamo per la fuga dei cervelli, con tutti i costi che questa comporta per il Paese, quando la spesa cumulativa per formare uno studente dalla prima elementare alla maturità è di circa 100.000€.

«Verrebbe da dire che è una fortuna che i cervelli fuggano, altrimenti avremmo davanti ad una duplice sconfitta. Oltre che quella del sistema-ricerca, sarebbe infatti certificata anche quella del sistema formativo italiano: così non è, e i nostri ricercatori sono apprezzati in tutto il mondo. Nel settore che il mio ente rappresenta i numeri sono addirittura imbarazzanti: il 54% dei dottorandi italiani consegue il dottorato all'estero. Per il post-doc la percentuale arriva al 64%, il che è ancora peggio, perché è molto probabile che un post-doc all'estero rimanga. In questa sorta di mercato globale noi partiamo con grandi svantaggi: altri Paesi catturano le nostre migliori intelligenze in virtù delle migliori condizioni che offrono (dalle minori complicazioni burocratiche ai 4'000 euro offerti in Germania per un post-doc, contro i 1'500 in Italia). I ricercatori che formiamo sono bravissimi: a me piace un sistema competitivo, ma se anche un terzo di questi facesse il post-doc in Italia, poi non avrebbe le condizioni per fare ricerca, se ne andrebbe. Da noi non esistono le giuste condizioni, e perdiamo tutto l'investimento messo in campo per la formazione dell'individuo».

Pretendere di tracciare soluzioni a tavolino sarebbe a dir poco insensato ma, più semplicemente, quale indicherebbe come la strategia da seguire una decisa inversione di rotta?

«È necessaria una riflessione. L'Italia ha un sistema di ricerca sparpagliato, e non si fanno riflessioni su dove indirizzarlo, sul suo collegamento con l'industria. A mio parere, ciò che occorre è riassumibile in due parole: autonomia e valutazione. Dare una larga autonomia agli enti di ricerca e sottoporre ogni tre anni i loro risultati all'Anvur (l'Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ndr): gli enti si metterebbero poi in competizione, come già fanno tra difficoltà estreme, e a seconda della performance registrata si potrebbe decidere il loro futuro, procedendo ad aumenti dei fondi o ad una loro diminuzione, fino anche alla soppressione del singolo ente o ad un cambio dei suoi vertici, a seconda dei casi. Trovate le giuste sinergie, i soldi per la ricerca devono essere dati alla ricerca con piena autonomia. Se un Paese come il nostro non si fida abbastanza delle proprie risorse - come lo sono gli enti di ricerca - tanto da concedergli più autonomia, significa che siamo proprio davanti ad un abisso».

In tempi di riduzione della spesa pubblica, pensa comunque ci sia un margine per riordinare e rendere più efficiente l'impiego di risorse nella ricerca?

«L'Italia investe già troppo poco in ricerca e sviluppo. Partendo dalla nostra attuale posizione di debolezza, dunque, dobbiamo renderci conto che non possiamo coprire efficacemente ogni area dello scibile umano. Dovremmo scegliere su cosa puntare con maggiore decisione e concentrare lì gli sforzi, ma anche questo non riusciamo a farlo per resistenze che affondano in problemi culturali profondi del nostro Paese».

Senza la giusta attenzione, con investimenti necessari nell'indirizzo della rinnovabilità di materia ed energia, l'Italia rischia di perdere anche il treno dell'industria sostenibile, che sta passando proprio adesso.

«Questo è un discorso bello e difficile da affrontare. Ad esempio, l'Italia nel campo delle rinnovabili non è messa affatto male, ai primi posti in Europa accanto alla Germania per quanto riguarda il fotovoltaico. Ha perso però il treno della produzione. Gli incentivi vanno bene, e più pannelli solari significano meno CO2 per il pianeta, ma non si è guardato alla costruzione di un'industria: l'Italia non produce pannelli solari, li installa. Siamo semplicemente dei clienti, e questo penso valga in molti campi.

Se si vuole diventare davvero leader in un settore dobbiamo dimostrarlo e pianificare, perché se non si monta sul treno, una volta che è passato non ci si monta più.

I paesi occidentali vivono sull'innovazione. Esistono dei casi dove la competizione, se non è strutturata, se manca di una vision, non va da nessuna parte: occorre uno sforzo coordinato perché l'Italia possa reggere la competizione con Paesi che sono organizzati decisamente meglio sotto questo punto di vista (pur proponendo modelli molto diversi tra loro, basti pensare alla Germania e alla Cina). Se pensiamo solo allo spread e alle finanziarie... la manifattura italiana ha le giuste potenzialità, ma serve uno sforzo da parte della politica. Se non riusciamo anche a guardare lontano, ma ci concentriamo solo sulla punta delle nostre scarpe, potremmo renderci conto che ad aspettarci al prossimo passo c'è un baratro».

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