[12/06/2012] News

Evoluzione o collasso: la scelta ci scivola via dalle mani, sulle ali di scienza ed economia

Il vero potere sta nella capacità di misura e controllo, per un sviluppo sostenibile ed inclusivo

«La scienza ci mette in grado di realizzare i nostri progetti, e se i progetti sono cattivi, il risultato sarà disastroso», scriveva Bertrand Russel, uno dei grandi pensatori che il secolo scorso si è portato via con lo scorrere delle lancette. Quella umana è l'unica specie animale ad aver sviluppato il metodo scientifico, ad averne asservito il conseguente sviluppo tecnologico per provare a plasmare a suo piacimento l'ambiente circostante, e a riuscire nell'intento con discreto successo. La linea del progresso così tracciata ha finito per incidere profondamente sulla nostra stessa evoluzione.

Georgescu Roegen, l'economista fondatore della bioeconomia, in occasione di una sua conferenza all'Università di Yale affermava infatti che, «Eccezion fatta per alcune eccezioni insignificanti, tutte le specie diverse da quella umana usano solo strumenti endosomatici - come Alfred Lotka propose di chiamare quegli strumenti (gambe, artigli, ali, ecc.) che appartengono all'organismo individuale sin dalla nascita. Solo l'uomo è giunto, nel tempo, ad usare un bastone, che non gli appartiene alla nascita, ma estende il suo braccio endosomatico e ne accresce il potere. In quel momento, l'evoluzione umana trascese i suoi limiti biologici per includere anche (e primariamente) l'evoluzione di strumenti esosomatici, cioè di strumenti prodotti dall'uomo ma non appartenenti al suo organismo. È per questo che l'uomo può volare o nuotare sott'acqua anche se il suo corpo non ha ali, né pinne, né branchie».

Questa evoluzione così peculiare ha apportato enormi benefici alla nostra specie, dei quali tutti noi continuamente godiamo ed approfittiamo, ma ha finito per prenderci la mano. Da povere scimmie assoggettate ad una Madre Natura meravigliosa ma volubile e cinica abbiamo finito per autoelevarci a suoi dominatori assoluti, con potere (di vita?) e di morte su tutti o quasi gli ecosistemi che ci circondano, divenendo a nostra volta volubili e cinici. Procedendo per opposti, per infine convergere ad una qualche forma di equilibrio, la sfida che i profondi cambiamenti ambientali che dobbiamo adesso affrontare (e a quali abbiamo contribuito con mano assai pesante) è chiara: ricondurre la scienza e la tecnologia alla loro funzione di formidabili strumenti.

Riprendendo Albert Einstein, il teologo Vito Mancuso su la Repubblica tesse le lodi di quella «sua visione generale di una ricerca scientifica guidata dall'etica, del tutto opposta rispetto al teorema secondo cui "se qualcosa è scientificamente ipotizzabile, prima o poi qualcuno la realizzerà"». Non parliamo qui di porre particolari freni alle possibilità di ricerca scientifica, sebbene su questi si possa e si debba discutere, ma di riprendere la possibilità di definire che cosa sia per noi giusto ed utile perseguire: non tutto ciò che è tecnicamente possibile deve per questo vedere la luce.

Siamo evidentemente affetti da una schizofrenia dovuta ad un eccesso di potere che non riusciamo a controllare, un potere controllato da un numero sempre più ridotto di persone, strette al vertice della piramide dalla concentrazione di sapere e capitale necessaria per navigare la barca dell'umanità nelle acque che abbiamo deciso di solcare. Quanto scritto per scienza e tecnologia, lo stesso vale per un'altra disciplina che giustappunto mira inconsiderevolmente ad essere annoverata tra le scienze dure: l'economia. «Tutti parlano dei problemi dell'Europa in questo momento - afferma il premio Nobel per l'economia Thomas Sargent, sul Corriere della Sera - Ma i principi economici sono molto semplici, e ognuno li capisce. Qui si tratta di decisioni politiche da prendere».

Anche solo la nostra evoluzione come animale sociale ci verrebbe in contro per suggerirci proprio quali siano le migliori da prendere. Sono quelle scelte politiche che mirano a concretizzare uno sviluppo sostenibile ed inclusivo, che distribuisca ed estenda i benefici del progresso a (tutte) le generazioni presenti e per quanto possibile alle future, salvaguardando e curando l'ecosistema del quale siamo custodi, e non padroni. Il progresso tecnologico e le configurazioni socio-economiche ci sono a quest'uopo utili e fondamentali solo nella misura in cui riusciamo a regolarne la corsa, tenendo in mano le redini.

Ecco che la variabile tempo torna in primo piano, la prima con la quale confrontarci. Fiduciosi che il progresso della scienza potrà permetterci di conseguire, «la crisi ecologica si spiega appunto con lo sfasamento tra un ritmo troppo veloce di consumo delle risorse naturali e un ritmo troppo lento di investimento nelle nuove tecnologie dell'ambiente», come scrivono Jean-Paul Fitoussi e Éloi Laurent nella prefazione del loro libro "La nuova ecologia politica".

L'esigenza di conoscenza e di controllo concilia il bisogno di cultura ed istruzione con quello di effettiva e maggiore democrazia, e quella così tracciata appare proprio l'unica via percorribile per uscire dal pantano nel quale con le nostre mani ci siamo cacciati. Occorre «concepire l'economia, la politica e l'ecologia come sistemi che non solo si aprono gli uni agli altri, ma si determinano reciprocamente», riprendendo ancora il volume sopracitato; il problema rimane il tempo a disposizione. Dobbiamo impegnare tutte lo nostre forze e risorse a far sì che sia sufficiente quello (poco, e sempre meno) che abbiamo a disposizione.

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