[02/04/2012] News

Giorgio Nebbia: «Quarantanni dopo i 'Limiti della crescita' altro che bio e rifiuti zero, bisogna ripartire dai libri di ecologia»

«In Italia la parola “sostenibilità” è diventata slogan di pubblicità commerciale»

I limiti alla crescita - impropriamente ma comunemente conosciuto come i limiti dello sviluppo - viene dato alle stampe pochi mesi prima della celebre Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972. A 40 anni di distanza, ci troviamo di nuovo ad aspettare un'altra importante Conferenza Onu, quella sullo Sviluppo sostenibile, prevista per giugno.

Professor Nebbia, sembra però mancare un forte perno di promozione culturale, come lo fu I limiti alla crescita...

«Una risposta viene osservando che la Conferenza di Stoccolma del 1972 aveva come titolo: "L'ambiente umano"; l'attenzione era rivolta a come far sì che l'ambiente fosse in grado di soddisfare i bisogni, non solo merceologici, umani. La conferenza di Rio, venti anni dopo, era intitolata "Ambiente e sviluppo"; l'uomo era scomparso e l'attenzione era rivolta a conciliare l'ambiente con lo sviluppo della produzione e dei consumi. Il 1992, del resto, arrivava poco dopo l'invenzione dell'idea di "sviluppo sostenibile". La conferenza del prossimo giugno ha come titolo: "Lo sviluppo sostenibile"; sono scomparsi sia l'uomo sia l'ambiente. Il libro "I limiti alla crescita" invitava a rendersi conto che la crescita, della popolazione, della produzione e dei consumi, avrebbe portato a disastri umani, e di questo non sembra esserci più traccia».

Il ruolo dell'Italia, in particolare nella persona di Aurelio Peccei, fu determinante per la pubblicazione de I limiti alla crescita (con la fondazione del Club di Roma, il think tank che ha commissionato la redazione dello studio). Come giudica il ruolo attuale del nostro Paese nella promozione internazionale di un dibattito attivo attorno al tema della sostenibilità?

«Peccei ha contribuito a dare una forma leggibile, provocatoria, al pensiero che circolava negli anni sessanta sui limiti della Terra, sul considerare la Terra come una navicella spaziale (Spaceship Earth) da cui soltanto si potevano trarre i beni necessari per la vita (umana e non umana) e entro cui soltanto potevano essere immesse le scorie della vita e delle attività umane. In Italia la parola “sostenibilità” è diventata slogan di pubblicità commerciale, senza che chi la usa si renda conto che non si può sfruttare le risorse della terra oggi, illudendosi di lasciare le stesse risorse alle generazioni future».

Nello studio pubblicato da lei e dal prof. Piccioni ("I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-74", vedi link), riassumendo le conclusioni de I limiti alla crescita, è scritto che «se continua la crescita della popolazione […] crescono malattie, epidemie, fame, guerre e conflitti. Se si vogliono evitare situazioni traumatiche, la soluzione, secondo i Limits to growth nella sua edizione originale come anche nelle varianti scritte a venti e trenta anni di distanza, va cercata in un rallentamento del tasso di crescita della popolazione mondiale, della produzione agricola e industriale e del degrado ambientale, insomma nella decisione di porre dei “limiti alla crescita”, della popolazione e delle merci e nel raggiungimento di una situazione stazionaria». Come conciliare questa esigenza con quella della diminuzione delle disuguaglianze nello sviluppo materiale di aree e società diverse del pianeta?

«Duemila milioni di persone vivono senza lavoro dignitoso, senza abitazioni e servizi igienici decenti, spesso senza cibo sufficiente, prive di conoscenze e informazioni, esposte a violenza. E’ necessario dedicare la produzione di beni materiali, per soddisfare i bisogni essenziali di tali persone: materiali da costruzione, pozzi per l’acqua, processi di conservazione degli alimenti, servizi e macchinari medici, anche se del tutto diversi da quelli dei ricchi, usando le risorse e le conoscenze locali; una ingegneria al servizio dei poveri, ciò che inevitabilmente comporta uno sfruttamento delle risorse naturali globali. Questa inevitabile contraddizione, necessaria per attenuare tante situazioni di ingiustizia e violenza dei poveri, può essere sanata a livello planetario soltanto con un drastico ridimensionamento degli insostenibili consumi dei paesi ricchi, in modo che diminuisca il loro peso nello sfruttamento del patrimonio, limitato, di risorse globali. La cura delle malattie dei poveri sarà comunque anche una cura per le malattie dei ricchi, insoddisfazione, violenza, inquinamento, paura del futuro».

Nel vostro volume vengono riportate le parole di Giovanni Berlinguer, il quale ha avuto modo di argomentare che «la politica ecologica non è soltanto un nuovo problema, bensì una nuova dimensione di molti problemi - forse, di tutti - della nostra politica»; riteneva anche che «il capitale universalizza lo sfruttamento, lo proietta alle basi naturali della vita, minaccia l’esistenza delle future generazioni». In un contesto globale in cui il capitalismo finanziarizzato destabilizza grandemente gli equilibri democratici, come giudica lo stato della riflessione ecologista all’interno della politica (ed in particolare della sinistra) italiana?

«Negli anni settanta, quando Giovanni Berlinguer scrisse quelle parole, sembrava ancora che la politica potesse aspirare a governare la transizione verso un mondo meno violento, in armonia con i vincoli posti dalla natura. Negli stessi anni, poco dopo la pubblicazione del libro “I limiti alla crescita”, il fratello, Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, aveva proposto una politica di austerità nella pianificazione delle città, nei consumi, nei rapporti di lavoro. Arrivarono i ruggenti anni ottanta e quelli successivi e l’ecologismo è diventato, a mio parere, la proposta di qualche piccolo rimedio ai guasti ambientali nella logica della politica liberista; qualche pannello solare pagato con soldi pubblici, un po’ di riciclaggio di alcuni rifiuti, conditi con la fallace illusione dei rifiuti zero, dell’inquinamento zero. Tutto ben lontano dalle leggi dell’ecologia, quella vera, che animarono i progetti politici, le speranze della contestazione ecologica degli anni sessanta e settanta».

«La crisi del modello socialdemocratico e il declino dell’attenzione per i possibili limiti non tanto della crescita, quanto della crescita in un mondo di risorse limitate, hanno frattanto causato la scomparsa di quel poco di cultura per le previsioni, per lo studio del futuro, che aveva caratterizzato gli anni sessanta e che aveva aiutato alcuni governi a “pianificare” le proprie scelte economiche e sociali». Da questo brano estratto dalle conclusioni del vostro documento traspare un tiepido pessimismo. Il tema della sostenibilità è molto più diffuso nella società rispetto a qualche decennio fa, ma sempre troppo ristretto entro elite intellettuali e pronto ad essere snobbato dalle istituzioni governative in presenza di temi più “urgenti”, come quello della crisi economica. A 40 anni da I limiti alla crescita, come si augura possa avvenire una nuova impennata del dibattito e ancor più nell’azione, un nuovo “rilancio ecologico”?

«L’avere proposto la rilettura del dibattito dimostra che crediamo nella possibilità di un cambiamento. Forse la grande crisi mondiale che stiamo vivendo può suscitare qualche progetto di politica differente; dopo la grande crisi del 1929 il New Deal di Roosevelt partì con opere di difesa del suolo, di rimboschimento, di lotta alle frodi e all’evasione fiscale, di valorizzazione dei prodotti agricoli. Il nostro libro vorrebbe essere un invito a rileggere le pagine scritte nella breve primavera dell’ecologia che andò dal 1965 al 1975, “disinquinate” dal chiacchiericcio sulla sostenibilità, sulle merci “bio” e “ecologiche”. Bisogna ripartire dai libri di ecologia, quella vera, quella del primo anno di biologia e riscoprire le leggi della vita che sono leggi di solidarietà e di collaborazione fra esseri viventi, compresi gli esseri umani. Apparirà così che l’appropriazione privata, nel nome del “di più”, dei beni della Terra che sono beni collettivi, è insostenibile in quanto ne degrada la qualità “ecologica”, cioè la possibilità di goderne da parte degli altri membri della comunità umana».

 

http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=18&tipo_articolo=d_editoriale

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