[29/03/2012] News

Il tesoro italiano di Gheddafi e la fine della primavera araba

La confisca del patrimonio da oltre 1,1 miliardi di euro che la famiglia dell'ex dittatore libico Mouammar Gheddafi aveva accumulato in  Italia rivela, ancora una volta, la rete di complicità politiche ed imprenditoriali che il regime spodestato anche con i nostri cacciabombardieri aveva creato in Italia. Probabilmente si tratta solo della punta dell'iceberg dei conti bancari, beni immobili, partecipazioni che il clan familiare di Gheddafi e la sua cricca avevano accumulato nel nostro Paese, molto resterà ancora  nelle capienti tasche di diversi amici italiani che lo hanno rinnegato dopo averlo omaggiato, fino all'osceno baciamano di Silvio Berlusconi.

L'elenco delle partecipazioni è comunque imbarazzante per la crema della nostra finanza e della nostra industria: 1,25% di Unicredit (611 milioni di euro), 2,1% di Finmeccanica (41 milioni di euro), 0,58% di Eni (406 milioni di euro), 0,33% della Fiat (53 milioni di euro) e poi le azioni della  Juventus. Un bel gruppo di multinazionali impegnate a stabilire quale sia il tasso di democrazia dei lavoratori italiani, ma che non disdegnano di accompagnarsi e fare affari con chi la democrazia la calpesta, e Gheddafi non era e non è il solo dittatore con il quale traffica l'imprenditoria liberal/liberista italiana.

Dopo che Gheddafi è stato catturato e provvidenzialmente assassinato il 20 ottobre 2011 in molti in Italia hanno tirato un sospiro di sollievo e nascosto il bottino sotto il tappeto, ma la giustizia internazionale non perdona i dittatori vinti e la  situazione in Libia dopo la vittoria dei ribelli si sta rivelando più problematica di quanto sperassero le multinazionali, Eni in testa.

Dopo la dichiarazione di semi-indipendenza della Sirte, anche il sud della Libia è diventato un  campo di battaglia tribale e la retrovia delle rivolta dei tuareg che sconvolge il Mali.  Sarebbero più  di 70 vittime e 150 i feriti nei violenti combattimenti in corso a Sabha, che negli ultimi tre giorni hanno opposto uomini armati della tribù dei Toubou ai miliziani di tribù rivali che hanno combattuto il regime di Gheddafi. A Sabha sono arrivate anche forze militari inviate da Tripoli nel tentativo di calmare gli animi. Fonti tribali dicono che è in atto un tentativo di sterminare i Toubou, e che cercheranno anche loro di creare una propria entità indipendente. Un responsabile della regione aveva annunciato che l'intensità degli scontri era calata, ma  aveva confermato che si è trattato di un massacro.

La Libia del post-Gheddafi rischia di esplodere, di frantumarsi per falde tribali che controllano oasi, deserto e soprattutto petrolio, una balcanizzazione che terrorizza i Paesi che hanno appoggiato la ribellione per "normalizzare" e stabilizzare proprio l'accesso agli idrocarburi libici. Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) ha dimostrato tutta la sua fragilità e il sogno di una democrazia di tipo occidentale è lontano ogni giorno di più: gli ex ribelli sognano la legge islamica della Sharia e le varie tribù e confessioni guardano alla secessione ed alla sovranità sulle risorse petrolifere e gasiere (e sull'acqua) come orizzonte vicino.

I miliziani di Gheddafi, ben protetti nella pancia delle tribù fedeli al colonnello, continuano la loro guerriglia e  le tribù si scontrano sporadicamente per marcare il loro territorio. Intanto continuano la fuga ed il martirio dei lavoratori "neri" accusati di essere complici del vecchio regime, ma che erano e sono un importante puntello dell'economia libica che è vissuta nell'assistenzialismo gestito dalla dittatura.

Il tempo passa inesorabilmente e le macerie e le carcasse dei carri armati vengono ricoperte dalla sabbia del deserto insieme alla retorica della liberazione e della democrazia che suonano sempre più false mentre la Guardia di finanza sequestra parte del tesoro italiano del dittatore.

Qualcuno pensa di esportare il modello libico in Siria, con un intervento militare occidentale risolutivo e che fermi un massacro probabilmente più grande di quello compiuto da Gheddafi.  Ma anche in Siria la situazione è più complessa di quanto la presentino i notiziari televisivi, l'opposizione è venata da un forte settarismo sunnita ed anti sciita-alauita e si è scoperto che arruola bambini soldato e che risponde alla barbara ferocia del regime nazional-socialista con altrettanta spietatezza.

Nel nome della democrazia potrebbe accadere qualcosa di straordinariamente perverso come conseguenza di quelle che sono state chiamate le primavere arabe: lo choc che ha colpito la sponda meridionale del Mediterraneo ed il Medio Oriente sta assumendo forme di un nuovo potere autoritario, diverse da quel che speravano i ragazzi e le ragazze arabe, qualcosa che va dalla normalizzazione islamica moderata della Tunisia al caos egiziano, dallo spappolamento libico al bagno di sangue siriano e yemenita.

I giovani democratici arabi scoprono (o riscoprono) orripilati le complicità economiche con i dittatori dei governi occidentali che avevano invocato come liberatori e il popolo che hanno liberato con il loro sacrificio li tradisce nelle urne delle nuove democrazie affidandosi a partiti religiosi, mostrando più fiducia nel clero islamico che nei tanti osannati Facebook e Twitter.

L'intervento politico e militare occidentale ha finito per dar vita a regimi islamici (proprio come in Iraq e Afghanistan) e/o tribali e Al Qaeda sconfitta nei tradizionali campi di battaglia rispunta come una rosa avvelenata del deserto nel Sahel terremotato dalla guerra libica, intanto l'incendiaria predicazione salafita si espande da Nouakchott a Damasco, alimentata anche dalle armi sottratte agli arsenali di Gheddafi, mentre tra gli sciiti, dall'Iran al Libano e fino al Bahrein, cresce il sospetto di una saldatura tra occidentali e sunniti-wahabiti per impedire la loro espansione politica. Ormai l'Iraq e la Siria governati dagli sciiti considerano la Lega Araba, controllata economicamente dall'Arabia Saudita e dal Qatar, i soli due Stati arabi wahabiti, come un avversario e i russi (alleati di Damasco e Teheran) accusano gli occidentali di favorire così l'espansione dell'islamismo più radicale. Il conflitto tra sciiti e sunniti che potrebbe far esplodere il Medio Oriente non si incarna solo nelle bombe di Baghdad ma anche nella repressione dei manifestanti sciiti (maggioritari) nel Bahreïn, ad un passo dall'Iran, ad opera dell'esercito saudita.

Anche l'assassino dei bambini ebrei e dei militari maghrebini francesi veniva da questa galassia integralista, un tragico segnale di come le "furbizie" occidentali non paghino e che il tentativo di sfruttare le divisioni confessionali e tribali dei musulmani per esportare la democrazia e tenere le mani su risorse e punti caldi del pianeta non funziona. E i frutti avvelenati di questa illusione non si raccolgono solo in Afghanistan  o in Iraq e Libia, ma anche nelle Strade di Tolosa e nelle casseforti delle imprese italiane.

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