[12/03/2012] News

Siamo agli albori di una nuova deriva protezionistica?

Se è vero che tre indizi fanno una prova, l'ultima conseguenza della crisi economica/finanziaria sembra essere quella che chi può, è bene che faccia il più possibile da solo. E la cosa ha molto a che fare con l'economia ecologica, visto che protagonisti di questa mutazione sono (come sempre) energia e materia. Con annessi input e output. Ma andiamo con ordine. In principio fu il Buy American obamiano, una formula che la Cina subito contestò e che prevedeva appunto che venissero preferiti i prodotti americani rispetto a quelli esteri per rilanciare l'industria a stelle e strisce.

I primi risultati, se le cronache nazionali rispondo al vero, è che si è arrivati persino oltre. Non solo Buy american, ma made in Usa. Con una serie (magari siamo agli zero virgola ma in questa fase contano i trend) che vedono pezzi di industria manifatturiera che dai paesi asiatici tornano a fabbricare e a dare lavoro negli States. Non solo, sempre Obama in campagna elettorale ha detto che l'America deve anche cominciare a produrre energia in casa, trivellando dove può e scommettendo sullo shale gas.

Il secondo indizio è l'aggiornamento - "azione incisiva" - della comunicazione della Commissione Ue della scorsa settimana, dove si dice senza  giri di parole che di fronte alla necessità di un «maggior sforzo innovativo e di collaborazione tra settore pubblico e privato per migliorare la qualità della vita e la posizione dell'Europa quale leader mondiale», e dato per assodato il fatto che la «fornitura di materie prime, vitale per l'industria di punta moderna, è un aspetto sempre più problematico», si prosegue asserendo : «si stima che il valore delle risorse minerali europee non sfruttate a una profondità di 500-1.000 metri sia di circa 100 miliardi di euro. Sviluppando nuove tecnologie si potrà estrarre più in profondità, nelle zone più remote e in condizioni estreme».

Non ci pare un caso che pochi giorni dopo il ministro italiano Passera rilanci sugli idrocarburi "made in Italy", sottolineando che «l'Italia ha ingenti riserve di gas e petrolio» e che «una parte importante è attivabile in tempi relativamente rapidi, consentendo di soddisfare potenzialmente circa il 20% dei consumi (dal 10% attuale)». Nel contempo il ministro dà un colpo quasi mortale all'immagine e alla necessità delle rinnovabili sul piano degli incentivi che per lui sono stati troppo generosi «in particolare per il solare», sostenendo che invece bisogna puntare su idrocarburi appunto, ma soprattutto su termico e efficienza energetica.

Tosto anche il terzo indizio, ovvero il piano del - udite, udite - governo inglese che vuole rilanciare l'industria manifatturiera made in England. Come scrive il Sole24Ore di sabato «è una strana congiuntura quella che incombe sul cielo britannico, con notizie che s'accavallano e svelano la consapevolezza di un'emergenza che non passa: l'economia per ripartire deve ridare alla manifattura quello che la finanza le ha tolto, accecando migliaia di giovani con i miraggi della City fatti di bonus milionari in via di estinzione. Accade così che Lloyds bank mandi un'avanguardia di manager nei capannoni di Beakbane Ltd, impresa meccanica del Worcestershire, a guardare come nasce una macchina per la produzione industriale, ovvero dove si fanno oggetti per produrre oggetti. Assistono, sotto la guida degli insegnanti dell'università di Warwick, all'atto supremo di creazione, cercando di capire perché un'azienda possa aver bisogno di investimenti consistenti e di lungo periodo. Esigenze troppo spesso incomprese negli uffici delle banche delle high street di Londra e Manchester, Liverpool e Cardiff». Chiaro, no?

Ci sarebbe poi un quarto indizio, la proposta di Sarkozy di sospendere Shengen entro 12 mesi, ma questo oltre ad essere evidentemente un proposito prelettorale, allude più a un declino totale europeo che a una deriva protezionista quale quella che più genericamente ci pare di vedere.

Il punto per noi non è certo mettere in discussione l'Europa. Anzi, siamo convinti che ci voglia più Europa, ma bisogna capire gli scenari che questo comporta. "Fare da sé ma non da soli" era un slogan dei progressisti che si può pure condividere, ma parlando di materie prime, un conto è dire utilizziamo tutti i rifiuti che abbiamo a disposizione per diventare il continente delle - come abbiamo ribattezzano noi - ri-commodity perché, come costi, sono anche più stabili delle commodity legate al petrolio; un conto è sfruttare anche tutto quello che madre natura ha ancora per noi sotto terra.

Appare evidente che nel 2012 e in piena crisi ecologica parlare a cuor leggero di rilancio di combustibili fossili a spese di rinnovabili e quant'altro, sembra una bestemmia. Ciononostante potrebbe anche lecito discutere senza impostazioni ideologiche e capendo a livello mondiale cosa conviene di più. Potremmo anche scoprire che un po' di protezionismo non guasta, sulla scie delle filiere corte per intendersi, ma intanto il problema bisognerebbe porselo, cosa che invece ci pare non stia accadendo. A tre anni abbondanti dalla crisi, abbiamo ancora una finanza che si è ripresa ma che è ancora completamente sregolata e i cui effetti sull'economia reale, nonostante appunto la ripresina,  non si vedono se non in negativo; una sorta di salvataggio/fallimento della Grecia ancora tutto da capire (non solo da noi); un governo tecnico che fa scelte "importanti" come quelle suddette e con il silenzio assenso dei partiti tutti. Non solo. La crisi sta creando una recrudescenza del contrasto ambiente-lavoro come decenni fa. E  - al di là di come la si pensi -  che la Cgil dica sì alla Tav perché siamo in crisi ne è lo specchio fedele. 

 

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