[20/02/2012] News

L'Europa si (s)vende. Fitoussi: «l'austerità in periodo di crisi porta alla distruzione di capitale umano»

La compagnia elettrica nazionale del Portogallo, la compagnia del gas in Irlanda, la compagnia spagnola dell'acqua potabile, due montagne austriache, una città militare (abbandonata) lettone; e poi novemila edifici, spiagge ed isole italiane, per arrivare ai trentanove aeroporti greci, al porto del Pireo, a una fetta di fascia costiera, a isole e parte dell'energia solare ellenica. Ecco un semplice stralcio della lista della spesa compilata in Europa - e snocciolata oggi sulle pagine de la Repubblica - con succose mercanzie già vendute o da proporre sul mercato per soddisfare la fame di infrastrutture e beni comuni dei «nuovi ricchi del pianeta, Cina e India, con gli sceicchi degli Emirati Arabi e l'emiro del Qatar a poca distanza».

I rapporti di forza stanno cambiando tra gli attori economici mondiali, e non è una certo una novità che il monopolio dei Paesi occidentali venga eroso sempre più dai cosiddetti Bric, o dai virgulti del più o meno vicino oriente. Quel che invece è più interessante sottolineare è che, mentre la crisi dei debiti sovrani nei Paesi Ue prosegue, con le relative ed accresciute difficoltà di trovare a buon prezzo acquirenti sul mercato per rifinanziare i debiti nazionali, i pezzi del puzzle che vanno a formare l'economia reale dell'Europa non fanno affatto fatica ad essere apprezzati all'estero, ma vengono più facilmente giudicati come eccezionali occasioni da non lasciarsi sfuggire.

Ironia della sorte, nel Vecchio continente sembra che tutta l'attenzione sia invece rivolta a consolidarsi sotto l'aspetto finanziario, e la privatizzazione selvaggia - che non ricomprende comprensibili razionalizzazioni di beni pubblici effettivamente "superflui" posseduti - viene vista come un inconveniente di cui neanche curarsi troppo, quando non è addirittura salutata come una salvifica crociata economica, finalmente portata avanti con coraggio. Distruggere le basi dell'economia reale, l'unica a poter davvero creare ricchezza e benessere da ridistribuire, risulta secondario rispetto al mantenere i conti pubblici in ordine. Gli unici che godono di questa scelta scellerata, però, sono solo quegli investitori che riescono ad accalappiare gioielli di tal fatta a prezzi di saldo, approfittando della crisi economica (e psicologica) che attanaglia l'Unione.

La crisi del 2007-2008 è stata subito individuata di matrice strettamente finanziaria, quando alla sua origine, in definitiva, si nascondeva invece un'eccessiva disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, che andava a comporre un mix letale legandosi ad una corsa al credito facile, spinta dalla volontà drogata di una società votata al consumo. Adesso, e già da un po', la crisi finanziaria si è trasformata in crisi economica, ma esclusivamente a causa del vortice recessivo in cui la prima ha infine trascinato la seconda. Sul problema di fondo, sul che cosa produrre e per chi, e sul come distribuire i relativi profitti, in pochi ormai parlano. Sono sovrastati dal chiasso della paura estemporanea, quella provocata dalla crisi dei debiti sovrani europei.

Purtroppo non esiste una bacchetta magica in grado di sciogliere problemi complessi, ma agitare le giuste leve potrebbe aiutare grandemente a eludere quella parte della crisi che dovrebbe spaventare più i ragionieri che non i disoccupati che a frotte perdono il lavoro anche a causa di una politica macroeconomica miope, che a tutti i costi vuole rientro simultaneo dei debiti pubblici e dei debiti privati. Durante questa sorta di rito sacrificale, e in un contesto di paura e volatilità, non è dato sapere chi dovrebbe ricominciare a spendere ed investire per far ripartire economia ed occupazione.

«I governi devono mantenere i nervi saldi davanti all'aumento del debito pubblico - scrive oggi l'economista Jean-Paul Fitoussi (Nella foto) in un'altra pagina del quotidiano del gruppo Espresso - per non cedere a loro volta alla tentazione di un rientro troppo precipitoso del debito. Ma dovrebbero essere liberi di farlo. E non è così in Europa, dove se i debiti sono sovrani, la moneta non ha sovrano. La frammentazione del debito europeo in altrettanti debiti nazionali non protetti da una banca centrale spalanca le porte all'arbitrio dei mercati, pronti a discriminarli a seconda della valutazione dei rispettivi rischi [...] La frammentazione dei debiti conduce così ad un'altra frammentazione, quella delle politiche, a tutto danno dell'interesse generale europeo [...] Ora, l'austerità in periodo di crisi porta alla distruzione di capitale umano (disoccupazione, precarietà, esclusione)».

Rimanendo dunque in attesa di un accordo per una gestione europea dei debiti sovrani (o di una loro parte), assieme alla volontà di approntare mezzi comuni per crescere - magari con l'emissioni di appositi bond comunitari per indirizzare e sostenere uno sviluppo sostenibile - è necessario stringere i denti, facendo tesoro e affidamento su quanto di positivo è stato costruito in Europa, in materia di politiche di welfare come in ambito di progetti industriali. Predicare un intervento pubblico per rilanciare e indirizzare il nostro tessuto economico ha però un che di tragicamente comico, se al contempo non riusciamo a evitare di svendere ciò che potremmo invece utilizzare per ripartire a costruire. Forse qualcuno dovrebbe far notare il paradosso.

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