[02/02/2012] News

Facebook sbarca a Wall Street perpetuando un marketing aggressivo insostenibile

Il J. Edgar Hoover del XXI secolo sbarca in borsa. Il primo direttore dell'Fbi era ossessionato dalla possibilità di raccogliere, analizzare e archiviare impronte digitali o informazioni sensibili degli uomini che calcavano il suolo degli Stati uniti, in modo da poter utilizzare tali dati a difesa della propria patria - o per il perseguimento di interessi privati, perché no. Mark Zuckerberg, creatore di facebook nonché il più giovane miliardario al mondo, ha inconsapevolmente raggiunto la quintessenza del desiderio che spingeva Hoover: il suo social network è infatti una banca dati sconfinata, in cui 800 milioni di utenti sparsi per il globo riversano gratuitamente, e soprattutto spontaneamente, informazioni sulle proprie vite.

Arrivato l'annuncio ufficiale, la normale trafila burocratica lascia immaginare che tra un paio di mesi o poco più le azioni con marchio "fb" potranno allettare gli investitori, tanto dal far sperare al social network di racimolare qualcosa come cinque miliardi di dollari, quando la valutazione della società oscilla già tra i 75 e i 100 miliardi di dollari. Non male, per un gingillo nato ad Harvard con lo scopo di favorire le amicizie e le relazioni tra gli studenti universitari.

Il business del gigante blu del web appare inoltre in continua crescita: il 2011 ha portato nei conti dell'azienda di Palo Alto 3,71 miliardi di dollari di ricavi e un utile netto di 668 milioni, con un aumento di quasi l'80% rispetto all'anno passato. In questa campagna che spianerà ulteriormente la strada alla quotazione borsistica, per rivolgersi ai potenziali acquirenti Zuckerberg ha scelto l'ammiccante motto «non produciamo servizi per fare soldi; facciamo soldi per realizzare servizi migliori. In questi tempi ritengo che sempre più persone vogliano usare i servizi di società che credono in qualcosa che va al di la del semplice massimizzare i profitti». La sensazione, però, è che facebook non avrà affatto grandi problemi a piazzare sul mercato le proprie azioni, anzi.

C'è un "però". Come sottolinea oggi la Repubblica, «l'ingresso in borsa imporrà infatti a facebook ancora più accanimento nello scavare e nell'estrarre le pepite d'oro dalla propria miniera. Esposta allo scrutinio delle autorità americane di borsa, la Sec, e soprattutto gli investitori, la creatura di Zuckerberg dovrà dare ai venditori, agli inserzionisti, ai cercatori di liste di potenziali benefattori o finanziatori o elettori notizie sempre più mirate e precise, sperando che quegli 800 milioni continuino a offrirsi liberamente sul mercato. Per questo esiste, perché Facebook, come Google, come Yahoo, come Linkedin, come tutte le "majors" della "libera ricerca in rete" trascurano il fatto di essere aziende a fini di lucro, non enti benefici».

La prima domanda è quanti di quegli 800 milioni di individui sceglieranno di rimanere sulla piattaforma offerta da Zuckerberg, e quanti decideranno di migrare su altri e più liberi centri di aggregazione digitale; al momento il vento è decisamente a favore del social network, ma i destini d'oblio ai quali sono state rapidamente consegnate creature altrettanto "mirabolanti" come Second life o Myspace dovrebbe far riflettere. La seconda domanda, entrando nell'ottica di uno sviluppo sostenibile da pilotare e guidare nella collaborazione di istituzioni e privati cittadini, induce a riflettere su quanto sia effettivamente significativo investire il proprio capitale su un'azienda come facebook, proprio guardando "oltre il semplice massimizzare i profitti", come ci suggerisce proprio Zuckerbeg.

Essere entrati a pieno titolo all'interno della cosiddetta "economia della conoscenza" ci fa giustamente essere più attenti di fronte alle opportunità derivante dalla dematerializzazione (parola inflazionata che invece deve essere usata con parsimonia e pertinenza) che investe in pieno anche il mondo del business, ma questo ovviamente non implica che l'emersione di qualsivoglia business dematerializzato sia irrevocabilmente una buona notizia.

Sul fronte dell'occupazione, i 3,7 miliardi di ricavi incassati dal social network nel solo 2011 sono "spalmati" su solo 3000 dipendenti circa stipendiati dall'azienda di Palo Alto. Sul fronte dello sviluppo sostenibile da pilotare, invece, l'entusiasmo per lo sbarco di facebook all'interno dei listini borsistici rappresenta piuttosto il solo perpetuarsi di un modello di marketing aggressivo e sempre più invadente, che cerca di garantire la massima efficienza ed efficacia per le campagne pubblicitarie di prodotti che, per la gran parte, rappresentano solo una delle tante facce del rampante consumismo/acquistismo.

In un periodo di crisi, dove drammaticamente languono gli investimenti pubblici come quelli privati, le poche risorse disponibili dovrebbero piuttosto essere incoraggiate - anche tramite favori amministrativi e fiscali - a dirigersi verso quell'intreccio virtuoso di economia della conoscenza ed economia "pratica" che deriva da un connubio di competizione e collaborazione tra «università, ricerca, impresa, altrimenti l'economia della conoscenza non prospera», rubando le parole di Alessio Gramolati, segretario della Cgil Toscana intervistato oggi sempre da la Repubblica. E l'approdo di facebook nei mari agitati della borsa, è bene sottolinearlo, non sembra proprio ricadere in alcun modo all'interno di questi citati virtuosismi.

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