[16/01/2012] News

L'incomunicabilità tra politica ed economia lascia campo libero alla finanza

Non c'è stato il temuto tracollo da parte delle Borse dopo la mannaia di Standard & Poors che venerdì ha dimezzato i rating di mezza Europa e di fatto, secondo molti analisti, ha bocciato la politica europea del rigore, che finora ha messo in secondo piano la fase della crescita. Moderato ottimismo in Borsa dunque stamani, mentre i giornali del week end si sono riempiti di alti commenti inneggianti alla necessità di porre un freno alle agenzie di rating, o che evidenziano i conflitti di interesse all'interno delle stesse agenzie, gli errori del passato, fino ad arrivare alla proposta di una agenzia unica, magari a livello europeo, di carattere pubblico.

Commenti a iosa, ma che non penetrano nel velo di maya dietro al quale si nascondo i politici (anzi, coloro che governano), tirati per la giacchetta da mille interessi che fanno riferimento soprattutto al loro tempo determinato: nel giro di pochi anni le più grandi (meglio dire le più significative) economie europee avranno altri timonieri e le decisioni con lo sguardo lungo non arrivano.

Il risultato è che questo passaggio d'epoca è incontrollato e non governato, ci si ostina a un approccio statale e multilaterale quando va bene, mentre è completamente scomparso - proprio quando servirebbe di più - un consiglio di sicurezza sulla finanza e l'economia.

Praticamente non esiste livello politico che interloquisca con la finanza (non che la governi: che interloquisca), e l'unico risultato che possiamo attenderci da questa classe dirigente europea è forse un abbozzo di Tobin tax.

Il problema è anche che il velo di maya è doppio: da una parte vi si nascondono i politici a termine, dall'altra vi trovano riparo gli economisti che  hanno visto sgretolarsi molte delle certezza su cui si era formati, e non riescono a uscirne, raddoppiando l'incomunicabilità tra politica ed economia, che pure dovrebbe essere lo strumento principale attraverso cui prendere decisioni e governare.

Questa incomunicabilità tra politica ed economia - tra i motivi che impediscono alla polis di riappropriarsi dei tempi e dei luoghi necessari a interloquire prima e a governare poi la finanza -  la spiega bene sul Sole 24 ore di sabato il professore di economia Dani Rodrik, raccontando l'episodio avvenuto un mese fa  all'università di Harvard quando un gruppo di studenti ha abbandonato l'aula in segno di protesta contro il corso introduttivo di scienze economiche  basato su una ideologia conservatrice superata dagli eventi e che contribuisce a perpetuare le diseguaglianze sociali.

«Le nozioni economiche fornite nel primo ciclo di laurea - spiega Rodrik - patiscono l'entusiasmo di esporre in modo irreprensibile i pezzi forti della categoria - l'efficienza dei mercati, la mano invisibile, il vantaggio comparativo - dimenticando le complicazioni e le nuance del mondo reale, che sono ben riconoscibili nella disciplina. È come se i corsi introduttivi di fisica ammettessero per ipotesi un mondo senza gravità, perché in questo modo diventa tutto più semplice».

Non è un'autocritica banale. Perché Rodrik ammette anche che se un giornalista chiede a un economista «un'opinione sulla possibilità o meno che il libero scambio con il Paese X o Y sia una buona idea. Potremo essere certi che l'economista, come la grande maggioranza della categoria, sarà entusiasta nel ribadire il proprio supporto al libero scambio».
Ma se il reporter si infiltrasse come studente universitario nel seminario avanzato del professore sulla teoria del commercio internazionale ponendogli la stessa domanda, per Rodrik il professore «si lancerà in un'esegesi lunga e tortuosa che alla fine culminerà in un'affermazione del tutto evasiva: "Dunque, se la lunga lista di condizioni che vi ho appena citato è sufficiente, e supponendo di poter tassare i beneficiari per compensare le vittime, il libero scambio ha il potenziale per incrementare il benessere di tutti"».

Che spiegazione si dà Rodrik? Semplicemente che le conoscenze che il professore trasmette volontariamente e con grande orgoglio ai propri studenti di livello avanzato vengono considerate inappropriate (e pericolose?) da fornire al pubblico. E alla politica. Forse perché sarebbero incapaci di capirle.

«Applicata in modo adeguato e con una sana dose di buonsenso - conclude la riflessione pubblicata dal Sole - l'economia ci avrebbe preparato alla crisi finanziaria e mostrato la giusta direzione per stabilirne le cause. Ma l'economia di cui abbiamo bisogno è del tipo "aula da seminario" e non "regola empirica". È l'economia che riconosce i propri limiti e sa che il giusto messaggio dipende dal contesto».

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