[20/12/2011] News

Da consumatore a cittadino, la trasformazione necessaria

«Senza la democrazia protettiva noi ridiventiamo sudditi, non più cittadini. Il cittadino è quasi sparito dopo la fine del mondo greco-romano, salvo qualche eccezione. Era tanto sparito che del termine civis, cittadino e polites si era pressoché perduta la memoria. Riappare solo con le rivoluzioni settecentesche. Con fatica».

La fatica che ricorda sulle pagine de Il Corriere della Sera il politologo Giovanni Sartori è la stessa che stiamo vivendo, ancora non se n'è andata. Con un colpo di coda, è tornata più presente che mai sulla scena della vita pubblica, assorbendo le energie di noi cittadini dell'Occidente, che facciamo vanto delle nostre istituzioni sociali e democratiche, tanto da maturare il vizietto di volerle esportare sul resto del globo, e spesso con le cattive.

Questo senso di spossatezza che porta all'ignavia, è maturato in buona parte per uno spostamento dello stesso asse percettivo col quale ci inquadriamo. «L'ascesa del consumatore è la caduta del cittadino. Più abile è il consumatore, più inetto è il cittadino», riassume il sociologo Zygmunt Bauman: è l'assunzione del "consumatore" (che come diciamo da tempo è ormai più un acquistatore, perché consuma ben poco) come metro sul quale misurare la società, a imporsi come sostituto del modello sintetizzato nella figura del "cittadino", carica di diritti e doveri.

Il consumatore/acquistatore, invece, ha responsabilità ben più rarefatte, tese a soddisfare unicamente il proprio, personale soddisfacimento degli impulsi dettati dal desiderio. Desiderio per sua stessa natura fugace, polverizzato su un linea temporale frammentata in una moltitudine di punti slegati tra loro, uniti soltanto dal rappresentare la nascita di un nuovo desiderio da rincorrere e realizzare, per poi passare ad altro. Mosso dalla religione del capitalismo liberista, sublimata ora in quella del consumismo a debito, il consumatore modello si trova nei panni dell'invidualista più spinto.

Come questi presupposti possano conciliarsi al meglio con le esigenze di una democrazia in salute, posta a governo dei cittadini che ne sono attori e non spettatori, è esposto chiaramente alla vista di tutti: ovvero, non si concilia affatto. La millantata efficienza garantita dal mercato liberissimo maschera questo assunto fondamentale, provocando un ribaltamento di posizioni tra la democrazia (metodo di governo e valore in se) e mercato (strumento al servizio della democrazia), con quest'ultimo ora in un insensato ruolo di dominio.

Benché di efficienza non ce ne sia nemmeno l'ombra - altrimenti non si capisce perché ci troviamo nel bel mezzo di una crisi economica globale, e non si dica che ci siamo perché il mercato e la finanza sono troppo imbrigliati dai residui lacciuoli democratici - il banco, per il momento, proprio non ne vuol sapere di saltare.

Come la storia ci insegna, il modello economico che ormai ci governa non è affatto l'unico possibile. La favola thatcheriana del "non ci sono alternative" è un bufala dogmatica, e come tale uno spirito critico impone di respingerla. Quel che la crisi mette in chiaro, con una forte accelerata global sulle estreme conseguenze del capitalismo liberista a tutto tondo, è l'insostenibilità del sistema stesso.

Continuano su questa strada, infatti, non solo si perderà definitivamente lo status di cittadino, con tutti i diritti che questo comporta. Passare completamente dal decretare "una testa, un voto" al proclamare "un euro(?), un voto", sarebbe un passo decisivo sull'ascesa del mercato come totalitarismo.

Ascesa che siamo certo ancora in tempo ad invertire, rispolverando, rinvigorendo ed esercitando i valori a fondamento della vita democratica. Che non potrà più permettersi di essere soltanto civile, ma tanto consapevole da poter mantenere in salute l'ecosistema nel quale abita, sensati i modelli di produzione-consumo che anima, giusta la società nella quale si muove.

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