[09/12/2011] News

Rosina a greenreport.it: «l'incubo malthusiano è circoscritto, ma non può lasciarci tranquilli»

«C'è molto da festeggiare nelle tendenze demografiche degli ultimi 60 anni, soprattutto l'aumento della speranza di vita balzata dai 48 anni dei primi anni Cinquanta del Novecento a circa 68 nella prima decade del nuovo secolo. La mortalità infantile è scesa dai circa 133 decessi ogni 1000 nascite negli anni Cinquanta a 46 su mille nel periodo 2005-2010. Le campagne di vaccinazione hanno ridotto la diffusione delle malattie infantili in tutto il mondo. Il tasso di fecondità, cioè il numero di figli previsti per  ogni donna negli anni fertili, è sceso di oltre la metà, passando da circa 6 a 2,5, grazie allo sviluppo e alla crescita economica, combinati con una complessa miscela di forze sociali e culturali e con la maggiore possibilità per le donne di accedere a istruzione, opportunità di reddito e servizi per la salute sessuale e riproduttiva, ivi compresi i moderni metodi di pianificazione familiare.

Le dimensioni record della popolazione si possono considerare, da molti punti di vista, un successo dell'umanità. Non tutti però traggono benefici da questi risultati o condividono la migliore qualità della vita che essi implicano. Grandi disparità continuano a esistere tra un paese e l'altro, ma anche all'interno del medesimo stato. Tra uomini e donne, e tra ragazzi e ragazze, ci sono ancora disparità di diritti e di opportunità. Tracciare oggi un cammino verso lo sviluppo tale da promuovere l'uguaglianza, anziché esacerbare o rinsaldare le disuguaglianze, è più importante che mai».

Questo stralcio della sintesi del documento delle Nazioni unite  "Lo stato della popolazione nel mondo 2011", tradotto da Aidos e redatto dall'Unfpa, aiuta a focalizzare la nostra attenzione sulle vittorie e gli aspetti positivi cui il recente sviluppo demografico dell'umanità ci ha condotto. Al contempo, le criticità rimangono enormi, e le prospettive per il futuro non sono delle più rosee, senza un'adeguata gestione ed attenzione verso quelle dinamiche che da sempre la demografia studia.

Per un approfondimento sul tema, greenreport.it ha contattato Alessandro Rosina, professore di demografia presso l'università Cattolica di Milano e autore, insieme a M.L. Tanturri, del recente volume "Goodbye Malthus. Il futuro della popolazione: dalla crescita della quantità alla qualità della crescita".

Le prospettate soluzioni alla crisi economico-finanziaria in atto affollano le menti con una varietà di teorie impressionante, ognuna tesa a raccogliere adepti - più o meno a ragione. L'evoluzione demografica, che rappresenta invece un dato molto più certo, viene spesso relegata a problema minore, rispetto alla sua reale portata: come si spiega questa sorta di "trascuratezza"?

Si spiega con il fatto che i tempi dei cambiamenti demografici sono più lenti rispetti a quelli dell'economia. Ma nonostante questo le questioni che pone la demografia non sono affatto minori e se non le si affronta per tempo si rischia poi di subirne maggiormente e in modo più duraturo le conseguenze. Questo riguarda sia gli squilibri tra diverse fasce d'età, ad esempio tra giovani ed anziani, sia gli squilibri tra crescita demografica e risorse disponibili. Non occuparsi di questi temi o trascurarli significa poi doversi trovare con vincoli alla crescita che diventano nodi difficili da sciogliere e a pagarne i costi in temi di riduzione del benessere soprattutto a carico delle generazioni future.

Il recente rapporto Unfpa sullo stato della popolazione titola "Il mondo a 7 miliardi: le persone, le opportunità". Della crescita demografica ci vengono piuttosto tratteggiate le difficoltà, in particolare le disuguaglianze: come possono essere trasformate in opportunità?

I grandi cambiamenti comportano sempre dei rischi ma aprono anche opportunità. Negli anni Sessanta si pensava con molto timore ad un mondo popolato da 7 miliardi di abitanti. Ora abbiamo superato tale traguardo e viviamo complessivamente meglio senza che nessun collasso si sia prodotto, o quantomeno sia imminente. É vero però che troppe disuguaglianze permangono, sia tra paesi che all'interno di uno stesso paese, si pensi ad esempio al confronto tra centro e periferia delle grandi megalopoli. Ma questo valeva anche per la Londra o la New York di fine Ottocento. Va osservato che i paesi che pesano di più dal punto di vista demografico, come la Germania in Europa, e Cina e India su scala globale, tendono a dominare anche dal punto di vista economico. In altri casi però la crescita della popolazione rischia di eccedere le possibilità di sviluppo sociale ed economico. I timori maggiori in questo senso riguardano l'Africa.

Mentre una parte del mondo, soprattutto l'Africa, Cina e India continuano la loro corsa demografica, l'Occidente e l'Italia in particolare si trovano ad affrontare un invecchiamento della popolazione, fautore di conflitti intergenerazionali, specialmente in campo pensionistico. Alla luce della strada indicata dal governo Monti, pensa potrebbe essere quella giusta da seguire per sciogliere il nodo "pensioni"?

L'invecchiamento della popolazione, assieme all'immigrazione, è la sfida maggiore che affronta il continente europeo nella prima metà di questo secolo. L'Italia è poi uno dei paesi con maggior crescita della popolazione anziana a causa della combinazione tra bassa natalità e alta longevità. Per vincere questa sfida è necessario valorizzare nel mercato del lavoro e nella società la popolazione tardo adulta e anziana. Oggi una persona di 60 anni è paragonabile ad una di cinquanta di mezzo secolo fa e a una  di 70 quando a metà di questo secolo. Ci sono tutte le condizioni quindi perché si possa continuare ad essere attivi a lungo e non si venga messi da parte quando ancora si può dare molto. Il problema però è che finora le leggi italiane hanno spostato in avanti l'età pensionabile più agendo sui vincoli a rimanere che sulle condizioni che incentivano e favoriscono un lavoro appagante e di qualità per gli over 60.

Il default più preoccupante che potrebbe attendere l'umanità è quello derivante dall'intrecciarsi di risorse naturali scarse e popolazione crescente. Questo proprio quando, in Occidente, si parla della necessità di fare più figli, per sostenere il welfare state. Quanto siamo lontani dall'incubo malthusiano?

Lo scenario più apocalittico legato all'evoluzione demografica è quello di scontrarsi in modo insanabile con il vincolo delle risorse. Il problema riguarda i paesi più poveri e soprattutto l'Africa. L'incubo malthusiano è quindi circoscritto ma non può per questo tranquillizzarci del tutto. É vero però che siamo entrati nel secolo del rallentamento della crescita demografica ed è verosimile che la popolazione mondiale si stabilizzerà sotto i 10 miliardi verso fine di questo secolo. Già oggi nella maggior parte dei paesi del mondo nascono meno di due figli per donna, valori inferiori quindi al ricambio generazionale. Più incerto è invece il rapporto con le risorse naturali: molto dipenderà da come cambieranno e diventeranno più sostenibili i nostri stili di vita e quanto peso potrà avere l'innovazione tecnologica, ma soprattutto la green economy, nel compensare il carico degli altri 2 o 3 miliardi che si aggiungeranno in questo secolo prima della stabilizzazione.

Il welfare italiano ha la sua base tradizionale nella famiglia, con tutte le problematiche che questo comporta. Crede sia solo un'utopia l'approdo nel nostro Paese di un welfare state di stampo nordico, "dalla culla alla tomba"?

Le carenze del welfare pubblico in Italia fanno sì che la tutela dei soggetti più vulnerabili e la risposta ai bisogni di base sia delegata al mutuo aiuto che si trova all'interno della famiglia e nelle reti informali. Si pensi ad esempio alla carenza di servizi sia per l'infanzia che per il crescente numero di anziani non autosufficienti, oltre che al sostegno verso i giovani inoccupati o precari. Ma la famiglia fa sempre più fatica a compensare le carenze delle politiche pubbliche. Ne consegue uno scadimento del benessere economico e relazionale, ma anche un aumento delle disuguaglianze.

Difficile però pensare che l'Italia possa arrivare alla copertura e alla qualità del welfare pubblico presente nei paesi scandinavi. Anche perché le difficoltà delle finanze pubbliche stanno frenando la spesa dello Stato e quindi anche quella sociale. Esistono comunque margini di miglioramento verso un welfare moderno, nel quale lo Stato non arretra ma consolida la sua offerta di base, definisce standard di qualità e concerta l'azione di altri soggetti (con ruoli e spazi ben delimitati e regolati) che vanno dal privato al terzo settore.

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