[05/12/2011] News

Le riforme auspicate si confermano sacrifici rituali al dio della crescita (per la crescita)?

«In tv è un gran vociare di esperti: in assenza di tagli alla spesa pubblica l'America finirà come la Grecia. Ma è vero quasi l'opposto. Benché i leader europei identifichino il problema della spesa pubblica troppo alta dei Paesi debitori, la realtà è che in Europa la spesa è troppo bassa. E imporre una maggiore austerità è stata una mossa negativa, che ha peggiorato la situazione».

Paul Krugman - statunitense, Nobel per l'economia nel 2008 - in un articolo tradotto dal quotidiano la Repubblica non manca di sottolineare ancora una volta, e con toni non molto ottimistici, a dire il vero, «l'assoluto bisogno di politiche fiscali e monetarie a sostegno dell'economia, mentre i debitori lottano per rimettersi finanziariamente in salute. Ma, da noi come in Europa, il dibattito pubblico è dominato da dalle ramanzine sul deficit e dall'ossessione dell'inflazione».

Dati alla mano, la ragione sembra sedere, quantomeno in parte, a fianco di Krugman. Alla crisi europea del  debito ancora non è stata trovata la soluzione, e l'attesa rimane tutta per il vertice dell'8-9 dicembre, dove quanto meno gli italiani si aspettano di vedere imbastite concrete vie d'uscita, da portarsi avanti con risolutezza, dopo che la manovra del governo Monti di sacrifici a livello nazionale chiede di spremerne molti e, almeno per il momento, senza che la sbandierata equità sia molto presente.

Analizzando il recentissimo 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese redatto dal Censis, un  il Manifesto riporta come «c'è bisogno di rimboccarsi le maniche e, se necessario, di sacrificare il proprio tornaconto personale per il bene del Paese. il 57,3% degli italiani si dice disponibile, anche se "solo in casi eccezionali" (46%) [...] sempre più chiaro è il bisogno di "tornare a desiderare", con la consapevolezza che la crisi più grande è nel soggetto, nell'individuo».

Non solo nell'individuo, ma anche nel modello di sviluppo condiviso dall'Occidente ed esportato nel resto del mondo sulle ali taglienti della globalizzazione, e che l'atomizzato individuo-consumatore-debitore quotidianamente corrobora, indirettamente ma indispensabilmente, portando avanti relazioni economiche, sociali e culturali suggerite dal cosiddetto mainstream. La sensazione del giogo e la voglia di disfarsene talvolta affiorano, ultimamente col rumoroso e vitale movimento degli indignados, senza però ancora sbocciare in un'alternativa tanto seducente e futuribile da incoraggiarne il perseguimento da parte della maggioranza.

Intervistato sulle pagine del Corriere della Sera, Roland Beger (uno dei più stimati consulenti tra i vertici teutonici, nonché un esperto di relazioni economiche italo-tedesche) suggerisce al Bel Paese di importare, oltre alle merci prodotte dalle fiorenti industrie della Germania, anche il modello di riforme per l'aumento della competitività, portati avanti dai tedeschi a partire dal 2003.

«Non esiste una sola via per recuperare competitività - spiega Berger - posso solo sottolineare il successo delle riforme tedesche, iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all'incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l'innalzamento dell'età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all'industria ma aumentato quelle indirette».

La stessa Germania, ora, si trova coi bilanci pubblici nettamente più solidi di quelli italiani, ed un'economia (che inizia ora a balbettare, a causa dell'allargarsi della crisi europea) che finora cresceva al 3% annuo, fondando le dinamiche di tale crescita sull'esportazione verso l'estero, godendo del clima economico estremamente favorevole ai tedeschi che la moneta ed il mercato unico europeo sono andati a creare.

Rimanendo su tali binari, questo modello può essere sostenibile nel lungo periodo? Può certo presentare lati condivisibili, e la riduzione della spesa sociale, se inefficiente, può essere migliorata. Se non si rendono i lavoratori-consumatori in grado di consumare a causa di un reddito troppo basso, i consumi promossi con forza dal marketing saranno possibile solo ricorrendo massicciamente al debito (con conseguenze adesso sotto gli occhi di tutti).

Resta dunque solo lo sbocco dell'export. Ma un'economia che basa il suo sviluppo in toto sull'esportazione (in un ambito di stati nazionali, dunque, con meccanismi perequativi praticamente assenti), grava in modo determinante sugli habitat economici che vanno ad ospitare le merci che da lei provengono. In un'ottica globale, se qualcuno riesce a guadagnarci con l'export spinto, coloro che rimangono solo le risorse concesse da mercati marginali vanno a perderci, per sacrificarsi in una spirale debitoria sull'altare della crescita (mancata) del Pil.

Quel che manca e più serve, dunque, in contemporanea alle toppe per tappare momentaneamente le falle della crisi, è l'esigenza di individuare e perseguire una nuova, condivisa e sostenibile forma di sviluppo, da misurare con altri indicatori che non si riducano all'altrimenti sterile Pil - come nel caso del progetto in corso per misurare il benessere equo e sostenibile (Bes), portato avanti dal Cnel e dall'Istat.

Per dirla con le parole dello stesso Enrico Giovannini, il presidente dell'Istat intervistato dal Sole 24 Ore per una riflessione in concomitanza con la 22° edizione della ricerca annuale del Sole 24 Ore su la "qualità della vita sul territorio", la crisi «ha dimostrato che la crescita economica non risolve da sola il problema della redistribuzione delle reddito e del benessere. Con un elevato tasso di crescita del Pil, la questione non si poneva così chiaramente: dello sviluppo potevano beneficiare tutti, anche se alcuni meno di altri. Ora con una crescita prossima allo zero, si presenta con forza il tema della redistribuzione della ricchezza, da attuare in un'ottica di equità. E non solo nello stesso tempo ma anche nel rispetto delle generazioni future. Finora è stato anticipato lo sfruttamento delle risorse ambientali e si sono mantenuti i consumi accendendo debiti. È un modello sostenibile? No, non possiamo rispondere alle nuove emergenze con vecchi modelli».

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