[19/10/2011] News

La vera rivoluzione? Affermare la nostra umanità, contro l'eco-apartheid

dal nostro inviato
CUNEO. «I problemi ecologici sono solitamente più gravi di quanto la popolazione percepisca, ed appartiene ai media il compito di riuscire a comunicare con più drammaticità e realismo l'effettivo stato dell'ecosistema. Il problema di questa difficoltà percettiva sta nella lentezza della crisi ecologica che  danneggia progressivamente il pianeta; da un anno all'altro non si riescono magari a notare grandi cambiamenti, ma dobbiamo prender coscienza del fatto che proprio la specie umana è attualmente diventata la maggiore "forza geologica" che agisce sulla Terra».

William Rees, professore alla British Columbia University, nonché co-ideatore del noto indice statistico chiamato impronta ecologica (una relazione tra il consumo umano di risorse naturali - o spazio biologicamente ed ecologicamente produttivo - con la capacità de pianeta di rigenerarle), è intervenuto stamani alla nona edizione del "Forum internazionale dell'informazione per la salvaguardia della natura", promosso dall'associazione culturale Greenaccord, e che ha aperto oggi i battenti a Cuneo.

«Il mondo è in uno stato di deficit ecologico, un deficit molto peggiore di quello fiscale - che volendo può essere cancellato, mentre per le risorse del pianeta questo non può essere fatto. Attualmente, ogni uomo ha in media una disponibilità di 1,8 ettari per soddisfare le proprie esigenze, ed è tutto quello che ha. Eppure, già adesso sono 2,5 gli ettari in media consumati, sovraccaricando la biocapacità del pianeta, intaccando il nostro capitale naturale».

È dunque evidente la competizione estremamente accanita che è in corso tra gli esseri umani per l'accesso alle risorse, e tra la specie umana e le altre che popolano il globo: in una lotta impari. Se la diminuzione della biodiversità è aumentata esponenzialmente dall'inizio dell'era industriale, ogni uomo sta ora competendo con un suo simile per accedere ad un porzione di ecosistema; quegli individui che hanno avuto la fortuna di nascere in un Paese ricco possono permettersi di acquistare in gran quantità risorse esterne al proprio territorio, tratteggiando così una forte disparità tra uomini nell'accesso alla capacità di bioproduzione mondiale, e questo si nota chiaramente osservando le diverse impronte ecologiche dei vari Paesi.

Tale acquisizione è più propriamente definita da Rees un «furto legalizzato, che avviene tramite il commercio e il potere offerto dal denaro, concretizzandosi in una diversa forma di colonialismo con cui le persone che vivono in un certo Paese scacciano le persone di altri Paesi per soddisfare le proprie esigenze produttive. Questo a volte avviene ancor più direttamente, con l'ampliarsi drammatico del fenomeno del land grabbing, il furto di territori produttivi, come pure ha a che fare anche con i cambiamenti climatici - col 5% della popolazione mondiale che si prevede sarà costretta nella condizione di rifugiato ambientale, da qui a fine secolo. L'eco-apartheid dei poveri è una realtà contemporanea, e va affrontata».

Un'esigenza che diventa sempre più chiara, ma per la quale non è affatto semplice trovare una risposta da perseguire concretamente. I risultati degli studi divulgati anche da Rees sono teoricamente alla portata del grande pubblico già dagli anni '90, ma quel che continua a mancare per risolvere l'equazione è il toccare in profondità la sensibilità e la ragione di tale pubblico, facendo scattare la molla che conduce all'azione. Il problema fondamentale da affrontare non è dunque tecnologico, come sottolineato da Rees stesso, ma culturale.

Per svoltare davvero e partecipare alla creazione di un nuovo paradigma che guidi la società umana nel suo complesso, è necessario pensare su scala globale, ma agire simultaneamente anche localmente. «Negli ultimi quaranta anni c'è stata una marketizzazione dell'economia, e la politica deve intervenire in merito - argomenta Rees. Nessun Paese può essere sostenibile di per se, e non è importante quel che fa singolarmente, ma gli interesse di un paese coincidono con quelli dell'altro, perché in un'economia ed una società globali, anche le esternalità lo sono. Non parliamo più di collettività, ma l'azione non può avvenire se l'opinione pubblica non è informata e politicamente impegnata, e questa è una responsabilità dei media: non possiamo evitare il futuro, ma possiamo modellarlo».

Noi ci muoviamo con la nostra economia come un pesce nell'acqua, pensando che la crescita continua sia la normalità perché così ci viene presentato ma, storicamente, questo è una sorta d'anomalia del percorso dell'umanità: è indubbio che tale crescita dovrà arrestarsi, ma come ci fermeremo? In modo razionale e controllato, o con un collasso?

«La specie umana è unica, abbiamo un'incredibile capacità di esercitare giudizio morale, di provare compassione per esseri viventi appartenenti alla propria specie come ad altre, sappiamo programmare a lungo termine, ed abbiamo intelligenza per ragionare. Ma noi non stiamo usando queste nostre straordinarie capacità, concentrandoci solamente nel breve periodo, e non esercitiamo la nostra capacità di giudizio morale, ignorando l'impatto della condotta dei Paesi ricchi su quelli poveri.
Dunque, siamo davvero intelligenti, e compassionevoli? Dobbiamo riuscire a riconoscere come il sistema umano sia inserito all'interno dell'ecosistema planetario e non possa crescere a dismisura, e che tutti hanno diritto ad un ecosistema sano. La vera rivoluzione - conclude il prof. Rees - è quella di affermare la nostra umanità».

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