[11/10/2011] News

La battaglia degli studenti in difesa della cultura è la stessa per la ricerca della sostenibilità

Agitazione permanente: in sole due parole è possibile riassumere la vita del mondo culturale italiano. La manifestazione degli studenti (e non solo) che ha invaso le piazze italiane lo scorso 7 ottobre si fa araldo di un autunno molto caldo sul fronte delle proteste, in quello che purtroppo rappresenta ormai un classico per il mondo della scuola, dell'università e della ricerca.

Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini si è dichiarata "pronta ad ascoltare i ragazzi", le cui proteste "meritano rispetto", e ha annunciato la fine dei tagli - per i quali non ha mancato di indicare nel ministro Tremonti l'unico responsabile. Tali affermazioni, fatte prontamente seguire agli eventi del 7 ottobre, arrivano però quando il fondo del barile è ormai già stato grattato, in un vituperio che prosegue da decadi di cui l'attuale governo non certo è l'unico responsabile, ma ne è sicuramente un poderoso attore, data anche la semi-incontrastata predominanza politica dei governi Berlusconi negli ultimi dieci anni della Repubblica.

Dalla subitanea, sebbene relativa, comprensione che il ministro Gelmini stavolta non ha fatto mancare agli studenti, è possibile cercare di indovinare come, sottotraccia, con le proteste dei giovani che si fanno sempre più poderose ogni anno che passa, il governo possa forse temere di finire come l'esecutivo cileno di Sebastián Piñera, minacciato da vicino proprio dalla determinazione della società civile, guidata dagli studenti.

Le proteste italiane hanno forti similitudini con quelle cilene o degli indignados - prima spagnoli e poi newyorkesi - che offrono tutte il comun denominatore di una mobilitazione guidata dagli strati più giovani e precari della popolazione, quelli cui si vuol rubare la prospettiva di un futuro migliore (o quantomeno non peggiore), ma che invece vogliono difendere con le unghie e con i denti.

Il rischio che una primavera non più soltanto araba diventi presto un autunno è molto alto, ma il gioco vale la candela, e le motivazioni che la fanno fiorire uniscono trasversalmente i giovani. Osservando le proteste singolarmente, questo può non apparire immediato, ma il problema di fondo che è avversato, è evidente, risiede nel paradigma culturale capitalistico dominato dall'ideologia del profitto, che brucia le giovani e precarie speranze in sacrificio al dio denaro, prospettando un piatto ed omologante medioevo culturale.

Dalle pagine del Manifesto, oggi Piero Bevilacqua, professore ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, mette chiaramente in evidenza quest'aspetto, quando parla di «riprendere la discussione sull'università, una delle istituzioni che è entrata tardivamente nel vortice delle politiche neoliberiste e che oggi le subisce con particolare asprezza».

Sottolineando come al mondo della ricerca italiana non serva ulteriore competizione - «già elevatissima» - tra i soggetti che la animano, Bevilacqua evidenzia anche il triste pregio della legge Gelmini, che «ha il merito di mostrare con limpidezza il progetto sempre più dispiegato del capitale di piegare le strutture dell'alta formazione e della ricerca pubblica ai propri fini immediati e di breve periodo. Essa mostra cioè, in filigrana, l'orizzonte di immiserimento antropologico verso cui la cosiddetta crescita vuol condurci».

«Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. Dopo che, almeno per tre secoli, il mondo della formazione e della ricerca e dell'attività produttiva capitalistica erano stati ambiti correlati, ma dotati di relativa autonomia, oggi il capitale finanziario non è più disponibile a finanziare una formazione culturale "disinteressata", non destinata a produrre immediate ricadute di profitto».

La battaglia degli studenti, dei precari e dei ricercatori, quindi, collima con quella della promozione di uno sviluppo sostenibile dell'economia, irraggiungibile senza un profondo mutamento culturale, che spodesti l'egoistica ricerca del profitto personale a breve termine dallo scranno di profeta sul quale è stato posto ed ancora è venerato.

Se con lo sguardo si cerca chi potrà essere l'autore di questo capovolgimento culturale, al momento la speranza ricade sicuramente tra le nuove generazioni, portatrici per definizione di vento di cambiamento, che devono riuscire a prendere pienamente coscienza della loro responsabilità sociale, rammentando - come ricordato anche dal prof. Bevilacqua - che «non costituiscono solo un gruppo sociale capace di mobilitazione. In moltissimi casi, essi sono i membri più colti e consapevoli delle proprie famiglie. Talora di estese parentele. Essi cioè sono in grado di avere una influenza politica di vasta portata anche al di fuori del proprio ambito».

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