[01/07/2011] News

La scienza suona l'allarme: cambiare i modelli di sviluppo (ce lo chiedono gli oceani)

Mentre la comunità internazionale continua a preparare la conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile che avrà luogo a Rio de Janeiro nel giugno del 2012 (vedasi il sito www.uncsd2012.org) , la comunità scientifica internazionale continua a rendere noti i risultati di importanti ricerche che sottolineano il pesante e grave impatto umano sui sistemi naturali.

La scienza richiama quindi sempre di più l'urgenza e la concretezza nell'intervenire rapidamente per cambiare corso ai nostri modelli di sviluppo basati sulla crescita economica materiale e quantitativa. Anche in queste recenti settimane si sono avuti importanti seminari scientifici che hanno fatto il punto sulla situazione dei sistemi naturali del nostro bellissimo pianeta. Sono stati resi noti, ad esempio, i risultati del meeting degli esperti mondiali degli oceani riuniti dall'International Programme on the State of the Ocean (IPSO), dalla World Conservation Union (IUCN) e dall'International Geosphere Biosphere Programme (IGBP) all'Università di Oxford nell'aprile scorso, nel rapporto "State of the Ocean" (vedasi il rapporto sul sito dell'IUCN, www.iucn.org). E' stato poi rilasciato il rapporto "The Critical Decade. Climate science, risks and responses" dalla Climate Commission del governo australiano presieduta dal grande scienziato Will Steffen (vedasi www.climatecommission.gov.au) e a metà giugno si è tenuto a Stoccolma, organizzato dall'International Geosphere Biosphere Programme (IGBP) e dalla Royal Swedish Academsy of Sciences, il workshop di scienziati su "Planetary Stewardship: solutions for a responsible development" (vedasi il sito www.igbp.net).

In questi rapporti e in questi workshop la comunità scientifica esprime forte preoccupazione sullo stato di salute degli ecosistemi degli oceani, sullo stato di salute del sistema climatico, sottolinea il forte deterioramento esistente nelle relazioni tra i sistemi naturali e i sistemi umani, richiamando ad una forte responsabilità i decisori politici ed economici.

Ho scritto più volte, nelle pagine di questa rubrica, sul concetto e le pubblicazioni scientifiche relative ai cosidetti "Planetary Boundaries", i nostri "confini planetari" che gli scienziati hanno iniziato ad indicarci. Sin dalla pubblicazione su "Nature" del primo lavoro sui Planetary Boundaries dedicai un'intera rubrica al tema. Era il settembre del 2009 (l'articolo si intitola "A Safe Operating Space for Humanity" ed è apparso su "Nature" vol. 461; September 2009; 472-475).
Quella pubblicazione, frutto della collaborazione di 29 tra i maggiori scienziati delle scienze del sistema Terra e della scienza della sostenibilità, tra i quali il premio Nobel Paul Crutzen, è dedicata a sottolineare come il nostro impatto sui sistemi naturali stia facendo preoccupare l'intera comunità scientifica, perché in molte situazioni siamo vicini a dei punti critici (a delle vere e proprie "soglie"), oltrepassati i quali gli effetti a cascata che ne derivano possono essere devastanti per l'umanità. Per questo motivo i 29 scienziati indicano quelli che loro definiscono "i confini del pianeta" (Planetary Boundaries) che l'intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali.

Il rapporto ricorda che la specie umana ha potuto godere negli ultimi 10mila anni (nel periodo geologico definito Olocene dell'era Quaternaria) di una situazione, pur nelle ovvie dinamiche evolutive che interessano tutti i sistemi naturali, di una discreta stabilità delle condizioni climatiche ed ambientali che ci hanno consentito di incrementare il numero di esseri umani ed anche le nostre capacità di utilizzo e trasformazione delle risorse.

Oggi invece, secondo la comunità scientifica (come abbiamo più volte ricordato in questa rubrica) ci troviamo in un nuovo periodo, definito proprio dal premio Nobel Paul Crutzen, Antropocene, così chiamato a dimostrazione di come la pressione umana sui sistemi naturali del pianeta sia diventata talmente pesante ed evidente da essere paragonabile alle grandi forze geologiche che hanno modificato la Terra durante l'arco di tutta la sua vita.

Gli studiosi ci ricordano che esiste un grave rischio per l'umanità dovuto all'inaccettabile cambiamento prodotto da noi stessi nel passaggio dall'Olocene all'Antropocene. Questa pressione è oggi a livelli veramente elevati, come ci dimostrano tutte le ricerche del Global Environment Change (il cambiamento ambientale globale) oggetto di approfondite analisi da parte di tutti gli scienziati del sistema Terra (vedasi il sito www.essp.org).

Pertanto i 29 scienziati hanno individuato, nell'analisi pubblicata su "Nature" che rimanda ad un rapporto più esteso pubblicato sulla rivista "Ecology and Society" (vedasi www.ecologyandsociety.org) nove grandi "confini"planetari e sottolineano che per tre di questi, le ricerche svolte sin qui dimostrano che siamo già oltre il "confine" che non avremmo dovuto sorpassare.
Questi nove confini indicati sono: il cambiamento climatico, l'acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell'azoto e del fosforo, l'utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell'utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l'inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.
Per tre di questi, come già detto, e cioè cambiamento climatico, perdita di biodiversità e ciclo dell'azoto siamo già oltre il confine indicato dagli scienziati.

Per il cambiamento climatico si tratta sia della concentrazione dell'anidride carbonica nell'atmosfera (calcolata in parti per milione di volume - ppm -) che del cambiamento del forcing radiativo, cioè per dirla in maniera molto semplice la differenza tra quanta energia "entra" e quanta "esce" dall'atmosfera (calcolata in watt per metro quadro).

Per la concentrazione di anidride carbonica nel periodo pre industriale, eravamo a 280 ppm, oggi siamo a 387 (il dato attuale è già a 390 ppm) e dovremmo scendere, come obiettivo, al confine già superato di 350 (immaginatevi la portata della sfida di questo limite che, tra l'altro, non è affatto oggetto di discussione per le ultime conferenze delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, la prossima delle quali avrà luogo a fine anno a Durban in Sud Africa, dove si parla di percentuali di riduzioni di emissioni di gas climalteranti che porterebbero a concentrazioni di CO2 nella composizione chimica dell'atmosfera ben superiori alle 350 ppm indicate). Per quanto riguarda il forcing radiativo in era preindustriale è calcolato zero, oggi è 1.5 watt per metro quadro, il confine accettabile viene indicato dagli studiosi a 1 watt per metro quadro.

Per la perdita di biodiversità si valuta il tasso di estinzione, cioè il numero di specie estinte per milione all'anno. A livello pre industriale si ritiene che questo tasso fosse tra 0.1 e 1, oggi viene calcolato a più di 100, deve invece rientrare, come obiettivo, nel confine ritenuto accettabile di 10.

Per il ciclo dell'azoto si calcola l'ammontare di azoto rimosso dall'atmosfera per utilizzo umano (in milioni di tonnellate l'anno). A livello preindustriale si ritiene che tale ammontare fosse zero, oggi è calcolato in 121 milioni di tonnellate l'anno, mentre il confine accettabile, come obiettivo, viene indicato in 35 milioni di tonnellate annue.

Così gli studiosi indicano i confini, dove lo ritengono possibile, anche per gli altri sei ambiti prima ricordati (per ogni ulteriore informazione è bene visitare il sito dell'autorevole Stockholm Resilience Centre www.stockholmresilience.org i cui direttori Carl Folke e Johan Rockstrom sono tra gli autori del rapporto).

A febbraio di quest'anno, in un'importante pubblicazione scientifica apparsa sulla rivista "Environmental Research Letters" dal titolo "Reconsiderations of the planetary boundary for phosphorus" , due grandi esperti in materia, Stephen Carpenter, dell'Università di Wisconsin-Madison ed Elena Bennett della McGill University, hanno dimostrato che il confine planetario per l'eutrofizzazione provocata negli ecosistemi di acqua dolce da parte dell'inquinamento da fosforo si è già incrociato con gli eventi di anossia nelle zone degli oceani e dei mari dove si verifica la perdita di tante forme di vita dovute proprio all'eccesso di fosforo derivante dall'inquinamento agricolo e urbano. Gli autori fanno presente che il lavoro originale apparso su "Nature" relativo ai Planetary Boundaries, non ha considerato i fenomeni di eutrofizzazione degli ecosistemi di acqua dolce, focalizzandosi solo su quelli marini.

Considerando entrambi, come hanno fatto con i loro calcoli, Carpenter e Bennett, il nostro confine planetario sul fosforo è già superato. Il fosforo è un elemento essenziale alla vita ma la sua produzione industriale, non solo erode le disponibilità degli stock di fosforo presenti sul pianeta concentrati in poche nazioni e con un rischio di esaurimento in tempi molto brevi nei prossimi venti anni, ma il suo eccesso nelle acque, è la causa primaria delle proliferazioni algali (alcune delle quali contengono i Cianobatteri tossici) che degradano la qualità delle acque, inquinandole e privandole della vita. I depositi di fosfati che costituiscono miniere importanti per l'agricoltura ci hanno messo milioni di anni per formarsi (le nazioni con le riserve maggiori sono Stati Uniti, Cina e Marocco), ed è una pura follia distruggerli in tempi brevi provocando un drammatico inquinamento da fosforo.

Gli avvertimenti del mondo scientifico non possono restare a lungo inascoltati.

Torna all'archivio