[09/10/2007] Comunicati

La restaurazione dell´arte e quella dell´ambiente

LIVORNO. Niente è per sempre. Tutto si degrada. Chi ci dà però il diritto di metter mano a grandi capolavori facendo interventi irreversibili? Se lo domandano Carlo Ginzburg e Salvatore Settis su Repubblica avanzando la proposta di moratoria per tutti i restauri in corso che, sostengono, “cambiano la nostra storia”. «Come l’ambiente naturale, anche l’ambiente artistico è diventato estremamente fragile». In entrambi i casi – sostengono sempre Ginzburg e Settis - la riflessione arriva forse troppo tardi, in una situazione ormai compromessa.

Il parallelismo arte-ambiente prosegue fino alle sue estreme propaggini: «dobbiamo chiederci quale patrimonio artistico ci apprestiamo a lasciare alle generazioni future, e in quali condizioni». Il suggerimento dei due studiosi è quello di seguire il vecchio insegnamento di Giovanni Urbani: «la conservazione programmata, un continuo, capillare, diffuso monitoraggio delle opere d’arte teso a impedirne o rallentarne il degrado».

Parafrasando Ginzburg e Settis, quindi, è giusto metter mano al degrado ambientale o del paesaggio, prodotti per mano dell´uomo, per ripristinare le situazioni ex ante, oppure risanare e conservare l’esistente con un monitoraggio in modo da impedirne il degrado stesso? Sempre che si possa paragonare un’opera interamente dell’uomo come l’arte (qualcuno anche qui avrebbe da ridire) con una preesistente all’uomo come l’ambiente, il nodo da sciogliere è assolutamente di attualità. Nella tradizione ambientalista infatti la protezione e la salvaguardia dell’esistente è stato (ed in gran parte è tutt´ora) la ragione primaria della propria esistenza. Solo recentemente ha cominciato a germogliare l’idea di una riconversione ecologica dell’economia che impone, oltre la salvaguardia, progetti di trasformazione sostenibile. E dunque azioni che vanno oltre il protezionismo e la negazione di progetti insostenibili per cimentarsi con il "fare" positivo inteso come sostenibile, appunto.

L’impronta ecologica – per quanto discutibile e discussa – ben ci spiega quale sia l’impatto dell’uomo sulla terra. Creando oasi o riserve indiane certamente si compie una buona azione ma questo non impedirà di segare il ramo sul quale stiamo tutti seduti. La globalizzazione ha messo a nudo drammaticamente questa situazione dove l’economia, sempre più finanziarizzata e senza governace, agisce ignorando del tutto il nodo della sostenibilità e perciò della riproducibilità delle risorse che pure stanno alla sua base.

C’è poi da domandarsi un’altra cosa: quale ambiente incontaminato vorremmo preservare? Parlando di foresta amazzonica viene facile dire – anche da chi non ha alcun ‘sentimento’ ecologista - che bisogna impedirne la distruzione. Per tutta una serie di ottimi motivi. Diverso – si tratta ovviamente di una semplificazione – è parlare invece di mantenere ad esempio intatto il paesaggio delle belle colline toscane. Nel senso che non c’è quasi più niente di ‘naturale’ in quel bel paesaggio. O meglio, la mano dell’uomo lo ha reso quello che è ora. A partire dai campi coltivati, fino ai casolari, alla disposizione degli alberi lungo le strade e via dicendo.

Solo alcuni giorni fa i media ricordavano la storia della Sardegna, oggi crogiuolo di bellezze naturali, intasamento e sfruttamento turistico, ieri (solo alcune decine di anni fa) isola praticamente insalubre e abitata per lo più da rudi contadini. Come ci insegnano gli scienziati l’uomo cambia l’ambiente in cui vive anche solo introducendo un piede nudo nel mare. Dunque se in un’opera d’arte è lecito domandarsi se sia giusto “togliere una velatura da una tavola, un ritocco a secco da un affresco, un elemento che fa parte della stratificazione storica dell’opera”, se ‘l’opera’ in questione è l’ambiente, il problema non si pone. Perché la natura e le leggi fisiche sono molto più forti dell’uomo che non riuscirà mai a mantenere intatto un paesaggio come fosse una cartolina e mai l’ha fatto, almeno dove poi ha creato un insediamento, e soprattutto il modello economico attuale, che ha come unico dogma quello della crescita, inesorabilmente porta a cambiamenti più o meno irreversibili.

Altra cosa è la proposta di «conservazione programmata», ovvero un continuo monitoraggio per rallentarne il degrado che, saltando di nuovo da arte ad ambiente, significa avere degli indicatori che ti permettono almeno di vedere gli scostamenti. La contabilità ambientale, appunto, che quanto meno può fornire i trend (il dove stiamo andando e perché) e capire come intervenire e come modificarli. Ma anche qui il punto resta quello: se la nave (l’economia) va in una direzione contraria a quella verso la quale si aspirerebbe (la sostenibilità ambientale), con il monitoraggio e con qualche intervento tampone non si invertirebbe la rotta.

Dicono ancora Ginzburg e Settis: «Il concentrarsi dei restauri su opere celeberrime riprodotte in tutti i manuali di storia dell’arte, non ha bisogno di spiegazioni. I gruppi industriali finanziari che appoggiano quei restauri investono ingenti somme di denaro in cambio di pubblicità: chiedono risultati visibili, possibilmente clamorosi; all’eliminazione di ciò che può aver prodotto il degrado sono meno interessati». Non dice niente questa affermazione? Non dimostra esattamente quale sia la situazione con la quale bisogna misurarsi? Se per degrado si intendono ad esempio i cambiamenti climatici e per industria si prendono le multinazionali americane, succede che il parallelismo tra arte e ambiente è quasi tautologico. Anche se la posta in gioco è molto più alta.

Di certo tuttavia le multinazionali hanno capito che se non intervengono contro il degrado/global warming avallano un’economia autolesionista e sono disposte a investire denaro (e persino a chiedere regole e vincoli) per ottenere risultati visibili. La differenza è che, rispetto all’arte, ci sarebbe addirittura un passo in avanti da parte di chi investe perché a loro interesserebbe proprio “l’eliminazione di ciò che può aver prodotto il degrado”.

Ma arte e ambiente richiamano anche a due questioni totalmente incastrate nella discussione: i flussi di energia e di materia. Il metabolismo del pianeta ci impone questa attenzione. L’energia è quella cosa che dà la possibilità all’uomo di vivere come vive. L’impatto della sua produzione attraverso le fonti fossili ha portato alla condizione planetaria attuale. Le rinnovabili sono il presente e il futuro, ma anch’esse hanno impatti con l’ambiente. Si arriva di nuovo al punto: “mantenere l’esistente” significa per esempio non installare una pala eolica perché imbruttisce l’ambiente (e se qualcuno sostenesse che lo rende più bello)? Oppure che il fotovoltaico sui tetti di case storiche è uno stupro? E qui l’arte e l’ambiente si appiattiscono sull’eterna diatriba di cosa sia bello e cosa sia brutto, sconfinando nella psicologia della percezione. A dimostrazione di quanto il tema sia assolutamente interdisciplinare e possa essere affrontato solo con una visione olistica, ma anche che non esistono pietre filosofali in grado di far prendere decisioni senza scontare dissensi.

Ben più profondi e ben meno (purtroppo) tematizzati sono poi i flussi di materia. I negletti flussi di materia di cui nessuno vuole occuparsi ma che in realtà sono capaci di spostare ‘le montagne’. Se il problema fosse solo il bello e il brutto e si risolvesse con una standardizzazione di un bello universale (sul cui degrado poi bisognerebbe comunque intervenire), questo non impedirebbe in alcun modo che la materia continuasse ad essere usata per la sua produzione. Perché se la quantità si può ottenere senza qualità, la qualità non esiste senza quantità. Per costruire un bel palazzo, anche con tutti i crismi dell’ecosostenibilità, serve materia. Per costruire apparecchiature che consumano il minimo di energia possibile, serve materia. E se la si usa da una parte significa che la si è tolta dall’altra (e finirà in un´altra ancora con buona pace di chi ignora il secondo principio della termodinamica e il concetto di entropia). Per questo, stando sempre sul crinale arte-ambiente, quando Ginzburg e Settis chiedono una moratoria per fermare i troppi restauri sui capolavori, ad eccezione di quelli a fini di mera conservazione, riteniamo che ci sia un profondo punto di riflessione che vale anche per tutti, ambientalisti compresi. E´ sufficiente conservare e restaurare, oppure il focus del moderno ambientalismo è riconvertire, riorientare ed educare alla sostenibilità ambientale ogni azione dell´uomo?

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