[01/10/2007] Monitor di Enrico Falqui

Satyagraha

Ricordo ancora le parole di Thant Myint-U, nipote dell’ex segretario dell’Onu U-Thant ,quando durante la “primavera democratica” del 1988, si unì alla migliore gioventù birmana fuggendo nelle foreste tropicali ai confini della Thailandia per sfuggire alla repressione della dittatura militare di Rangoon.
«Non riusciremo mai a capire perché l’Occidente abbia dimenticato la Birmania: vi siete illusi che la giunta militare non potesse sopravvivere all’isolamento e invece si rafforza proprio grazie all’oblio del nostro dramma che si aggrava a causa delle sanzioni e dell’embargo», fu l´ultimo messaggio che udimmo da lui.

Quella possibile svolta democratica fu repressa nel sangue, proprio come sta accadendo in questi giorni nelle principali città del Paese che Rudyard Kipling definì “del mistero dorato”.
A niente è valso che Aaung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader della Lega nazionale per la democrazia, avesse trionfato nelle elezioni libere del 1990; il golpe militare mise fine alle speranze di democrazia di un popolo mite e gioioso. In queste ore niente sappiamo sulla sorte di Aaung San Suu Kyi, mantenuta per dodici anni agli arresti domiciliari dalla Giunta militare, in modo da recidere quel legame di fiducia che essa ha saputo costruire col suo popolo.

Nelle sue splendide "Lettere dalla mia Birmania", Aaung San Suu Kyi si interroga su come sia stato possibile che un regime così brutale e autoritario possa essere sorto proprio qui e afferma: "la Birmania è uno di quei paesi in cui il fascino si sposa alla crudeltà".
Lo aveva capito anche Gorge Orwell, ufficiale dell’Indian Imperial Police tra il 1922 e il 1928, che nel suo saggio Shooting an Elephant(1936) aveva scritto : «...quando l’uomo bianco si trasforma in tiranno è la propria libertà che egli distrugge. La condizione essenziale del suo dominio è che dedichi tutta la vita a cercare di impressionare gli “indigeni“ con l’esempio della violenza».

Oggi, l’uomo bianco non ha più il volto di quegli anglo-indiani descritti da Orwell nel suo libro "Giorni in Birmania", ma quello dei dirigenti della compagnia francese Total che continua a fare affari col regime e ha il cinico aspetto dei procacciatori europei di armi che vengono vendute al governo militare birmano, con l’aiuto di tecnologie italiane, francesi, tedesche, inglesi. Ha il truce aspetto degli uomini d’affari russi, il cui governo ha firmato un contratto per la costruzione di un reattore nucleare in Birmania.
Le esportazioni europee in Birmania hanno raggiunto il livello più alto, pari a 83 milioni di euro; per questo le sanzioni economiche nei confronti del regime militare sono piene di buchi e l’embargo europeo sulle forniture militari è una beffa.

Per questi motivi, le parole pronunciate nel 1988 da Aaung San Suu Kyi, poco prima che la marcia dei 400 monaci avesse inizio dalla città di Pakokku, hanno colto nel segno: «Ho trovato più calore umano, tenerezza, coraggio, attenzione e affetto tra la mia gente, mentre insieme speriamo, soffriamo e lottiamo, che in qualunque altra parte del mondo».
Ci volevano dunque i monaci buddisti, coraggiosi uomini scalzi, senza armi, con solo le loro ciotole vuote e le bandiere come potenti armi simboliche, per rompere il velo di silenzio che ha circondato la tragedia immane di questo popolo mite e gioioso, orgoglioso della sua cultura mitologica antichissima, secondo la quale il pachiderma sacro abitava originariamente la Birmania e per questo le popolazioni induiste, fin dal MedioEvo, si sottoponevano ad estenuanti pellegrinaggi dall’India fino a Mandalay, per venerare il sacro elefante bianco che abitava il palazzo reale.

Attualmente il 69% della popolazione birmana (oggi circa 52 milioni di abitanti su una superficie quasi doppia di quella dell’Italia ) appartiene al gruppo Bamar, il 9% al gruppo Shan, il 7% al gruppo Karen e il 4% al gruppo Rakhine. Il rimanenente 12% della popolazione si suddivide in gruppi etnici cinesi, indiani e mon.
L’attuale capo di Stato, il generale Than Shwe, ha utilizzato i poteri del governo, formato esclusivamente da ministri militari, per cercare di favorire le minoranze Shan e Karen in modo da ostacolare il processo di integrazione tra le diverse etnie.

Lo stesso cambiamento del nome della Birmania in Myanmar e quello della capitale Rangoon in Yangon, trova una cinica motivazione nella volontà della dittatura di ingraziarsi le minoranze etniche, in particolare Shan e Karen, e di cancellare ogni legame, anche di valore simbolico(quali sono i nomi delle città e degli Stati) con la precedente dominazione coloniale britannica.
E’ una dittatura violenta che ha ridotto un paese ricchissimo come la Birmania a mangiare l’acqua di scarto del riso, che ha ucciso impunemente, dal 1962, migliaia di poveri abitanti, che ha violentato centinaia di donne per sfregio e ritorsione politica, e rinchiuso nelle terribili prigioni birmane la migliore gioventù delle università.

Oggi il drastico aumento dei prezzi della benzina, del gas e dei generi di prima necessità ha ridotto sul lastrico il popolo di questo paese e ha colpito anche i monaci buddisti che vivono di offerte da parte del loro popolo.
Pochi sanno, però, che in Birmania, quasi tutti i veicoli viaggiano con benzina acquistata al mercato nero e a nessuna auto è consentito fare rifornimento per più di 16 litri alla settimana. Al mercato nero il prezzo della benzina, in questi giorni, ha superato i 90 kyat al litro; ciò vuol dire che un pieno settimanale di benzina ( di soli 16 litri) equivale al 60% di un salario mensile di un direttore generale del Ministero dei trasporti che corrisponde a 2500 kyat, circa 15 dollari.

Negli ultimi anni di questa spietata dittatura militare, il tasso di mortalità infantile ha raggiunto il quarto indice più elevato di tutti i paesi asiatici e del Pacifico, pari a 94 bambini su 1000 nati vivi. E anche il tasso di mortalità delle puerpere è divenuto il terzo indice più elevato della regione Asiatica, pari a 140 su 100.000 parti di nati vivi.
La giunta militare ha dissanguato finanziariamente il paese per spostare la capitale da Rangoon a Naypyidaw, 400 km a nord, allo scopo di disperdere quei ceti medi urbani che avevano promosso il movimento democratico del 1988.

Per finanziare un altro progetto faraonico, la Cyber City di Yadanapon, metropoli simbolo del regime, il governo militare ha autorizzato la Cina a realizzare nella Birmania orientale quattro mega dighe sul fiume Salween per raggiungere una potenza idro-elettrica installata di 16.000 Mw . L’elettricità prodotta dovrebbe servire a coprire il fabbisogno mancante di energia alla vicina Thailandia, con la quale la Cina ha stabilito un accordo commerciale strategico.

Non passa giorno che le agenzie di stampa internazionali diffondano tutti i particolari finanziari ed economici di questi accordi commerciali ma esse non hanno mai informato l’opinione pubblica occidentale dell’immane tragedia che sta dietro il sipario di questi accordi commerciali e geo-politci tra Cina e regime militare Birmano. Pochi sanno che lungo i circa mille chilometri del bacino del fiume Salween, vivono più di 100.000 abitanti appartenenti alle nazionalità dei Karen, Shan e Karenni; i loro villaggi saranno evacuati e distrutti e circa 35.000 abitanti saranno deportati dalle loro valli per permettere la realizzazione delle dighe.

Nel frattempo le popolazioni Karen, la maggioranza dei quali sono di religione cristiana, sono stati obbligati dall’esercito birmano a lavorare forzatamente alla costruzione dell’infrastruttura stradale necessaria per la realizzazione delle dighe. Per sfuggire a questo disumano “schiavismo“, circa 5000 Karen sono tutt’oggi nascosti nelle foreste della regione, dove sopravvivono come possono in assenza di qualsiasi aiuto per il cibo e le medicine.
E fino al 2004, nessuna fonte occidentale ci aveva informato che circa il 95% delle esportazioni totali di legname in Cina, per un importo pari a 250 milioni di dollari, sono illegali e provengono dalle foreste nordiche della Birmania, ai confini dello Yunnan, in violazione a tutte le norme che tutelano le aree a più elevata biodiversità, quali sono le foreste tropicali, in particolare le foreste del sudest asiatico e del Borneo.

Mentre in questi giorni aumenta il bilancio di sangue, terrore e violenza nelle città birmane sconvolte dalla repressione del regime militare, noi cittadini europei dobbiamo agire, cambiare passo e far uscire la Birmania dall’isolamento e dal silenzio che ha circondato per tanti anni l’immane tragedia vissuta dal suo popolo.
Sarebbe una buona idea mettersi in marcia come i monaci buddisti di Pakokku, anticipando la marcia della pace Perugia-Assisi, intitolandola Satyagraha, Resistenza contro la dittatura in Birmania, colorando il corteo con migliaia di magliette rosse. Dovremmo far sentire una voce potente e unita del popolo italiano ai governi di Stati Uniti e della Ue affinché esercitino tutte le pressioni e le ingerenze possibili su Russia e Cina,all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU, perché dessero finalmente il via libera ad un tavolo negoziale con tempi certi per la transizione democratica in Birmania.

Dovremmo cambiare passo sostenendo, anche con risorse economiche proprie della comunità internazionale, la lotta pacifica e democratica del movimento di Aung San Suu Kyi, dei monaci, degli studenti e dei lavoratori organizzati dall’FTUB birmano, che in queste ore mettono a rischio le loro vite per ridare libertà e democrazia al Paese “delle mille pagode”.

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