[30/07/2007] Recensioni

La Recensione. La fine delle illusioni di Arundhati Roy

Verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, periodo in cui sono stati scritti i due saggi “Per il bene comune” e “Un mondo senza immaginazione” che compongono il bel libro di cui diamo nota, il problema ambientale e quello della globalizzazione erano argomenti già di molti e non solo degli ambientalisti, ma non erano ancora “il tema” come invece lo sono oggi. Quando la Roy, già famosa per il suo romanzo best seller “Il Dio delle piccole cose”, concludeva questi racconti-denuncia sui temi ambientali, sociali, con forti risvolti economici di carattere globale, ancora non si era completamente definito il movimento no-global (poi new global in accezione meno radicale).

Sarebbe avvenuto di li a poco quando nel novembre 1999 intorno alle contestazioni avvenute durante una conferenza dei ministri in ambito Wto, si costituiva il “Popolo di Seattle”. Il “movimento dei movimenti” troverà poi la sua formalizzazione nel gennaio 2001 quando a Porto Alegre si riunirà il primo Forum Sociale Mondiale in contrapposizione con il World Economic Forum di Davos. La protesta si indirizzerà chiaramente contro i processi di globalizzazione dell’economia conseguenza degli accordi sul commercio internazionale sanciti dal Wto, contro i governi riuniti nel G8 che vanno a braccetto con istituzioni internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale.

Nel 1999 si accennava già alla dimensione globale dei mercati ma anche ai bisogni/diritti territoriali e locali, all’allargamento della forbice tra ricchi e poveri (tra paesi e nello stesso paese), alla carenza di risorse e all’aumento dell’inquinamento con il rischio di cambiamenti climatici dovuti all’effetto serra, perdita di biodiversità, desertificazione. Alla fine degli anni ’90 la ricerca dell’identità dei popoli si traduceva nelle forme più degradate anche nel cuore dell’Europa: xenofobia, integralismi religiosi, conflitti etnici (siamo nel periodo della guerra del Kosovo e al termine di un decennio di conflitti in ex –Jugoslavia). Le guerre continueranno e diverranno globali e preventive dopo il dramma delle Twin Towers dll’11 settembre 2001.

In questo scenario, che abbiamo sinteticamente tracciato, Arundhati Roy dimostra nei suoi saggi, oltre di essere attenta osservatrice delle politiche di sviluppo del colosso asiatico (India), anche di saper cogliere in modo ante litteram i temi che sarebbero divenuti centrali nei primi anni del nuovo millennio. Tra questi senza dubbio la carenza e la difficoltà di accesso alle risorse energetiche e idriche e le risposte sbagliate che specialmente nei Paesi in via di sviluppo (ma non solo ) sono state fornite. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla costruzione di mega opere di ingegneria come le grandi dighe, che hanno portato devastazione, povertà, cancellato diritti delle popolazioni autoctone, nei territori dove sono state realizzate.

L’autrice nel suo libro dimostra come le dighe siano state costruite senza un’analisi costi benefici ma solo per cogliere i finanziamenti della Banca mondiale e degli Istituti finanziari internazionali. La Roy, con dovizia di particolari, ci racconta il caso, oggi famoso, della valle della Narmada. Il fiume omonimo, nasce sull’altipiano di Amarkantak e scorre lungo 1300 chilometri di foreste, su un terreno fertile, attraversando tre stati (Madhya Pradesh, il Maharashtra e il Gujarat). Nella valle vivono 25 milioni di persone. I primi progetti risalgono alla metà degli anni quaranta e «nel 1961 Nehru posò la prima pietra per la costruzione di una diga alta 49,8 metri: la minuscola progenitrice di quella del Sardar Sarovar» informa l’autrice. Jawaharlal Nehru, primo ministro illuminato che conseguì l’Indipendenza (1947), nel 1948 dichiarava agli abitanti evacuati per la costruzione di una diga “Se bisogna soffrire, è meglio soffrire nell’interesse del Paese..” e successivamente in un altro discorso “le dighe sono i templi dell’India moderna”. Poi cambierà posizione. Il progetto Narmada Valley Projects, il più grande mai concepito per la valle di un solo fiume nella storia (3200 dighe tra asta principale e i 41 affluenti, di cui due gigantesche: Sardar Sarovar e Narmada Sagar), trasforma la Narmada in una serie di bacini «un’immensa scala di acqua addomesticata». E pensare che il progetto si basa su calcoli di portata sbagliata che nel corso di decenni non sono stati corretti, nemmeno dopo che nel 1992 la Central water commission ammette che nella Narmada c’è meno acqua di quella prevista. La Roy commenta «Le cifre non contano: la Narmada è tenuta, per decreto umano, a produrre la quantità d’acqua che il Governo dell’India comanda».

Le motivazioni sono presto dette e spiegate dall’autrice: prima che il Ministero dell’ambiente desse via libera ai progetti la Banca Mondiale aveva già pronti i soldi per la diga del Sardar Sarovar (alta 138,68 m) . 450 milioni di dollari erogati nel 1985 mentre l’autorizzazione del Ministero arrivò nel 1987. «L’India oggi è in una situazione tale per cui deve versare più denaro alla Banca, per pagare debiti e interessi, di quanto non ne riceva da essa. Siamo costretti a contrarre nuovi debiti per poter pagare i vecchi». Ricordiamo che siamo nel 1999 quando l’industria internazionale della costruzione di dighe fatturava 20 miliardi di dollari all’anno e si costruiva sfrenatamente (ma l’operazione è continuata anche nel nuovo millennio) in giro per il mondo: Cina (prima di tutto) ma anche Thailàndia, Giappone, Brasile, Guatemala, con gli stessi protagonisti come ci dice la Roy che costituiscono il “Triangolo di ferro” (politici, burocrati e imprese costruttrici).

Attraverso una sorta di acrobazie e scambi di ruoli gli “Aiuti per lo Sviluppo” e i finanziamenti talvolta vincolati anche ad altre partite, sono reincanalati in forma più o meno mascherata verso i Paesi da cui provengono. Inoltre, spiega l’autrice, la costruzione delle grandi dighe è affiancata ad un’altra conseguente fonte di guadagno: la scrittura dei Eia (environmental impcat assessments, valutazioni d’impatto ambientale), che sono “addomesticate” in base alle richieste dei governi. Il progetto del Sardar Sarovar è costellato di cifre ballerine che mutano in base alle esigenze, ma talvolta i numeri sono persone che soffrono e vengono sradicate anche se fa più comodo ridurle ad acronimi: Pap (Project Affected People, persone danneggiate dal progetto). Mezzo milione di persone secondo quanto stimato dall’Nba (Narmada bachao andolan, il Movimento per salvare la Narmada) per la diga di Sardar Sarovar.

Alcuni calcoli parlano di 40 milioni di persone sloggiati dalle grandi dighe in 50 anni di attività di costruzione. Sono per lo più adivasi, indigeni e dalit (intoccabili) che vengono evacuati e spostati in altre aree attraverso assurde politiche di reinsediamento. Il disastro ambientale si incrocia con quello sociale: non ci sono diritti per gli “ultimi” e in una lotta tra poveri ci sono anche migliaia di persone a cui le terre sono state confiscate per favorire il reinsediamento degli evacuati dalle dighe. Sfollati anche più volte, a cui un assente politica nazionale di reinserimento non può dare risposte.

Risarcimenti in denaro a persona analfabete che non possono reclamarli perché non posseggono niente. La Roy nel suo stile di narrazione dei fatti ci porta avanti e indietro nei cinquant’anni che hanno caratterizzato la storia della costruzione delle dighe in India. Passando anche tra qualche successo degli oppositori, come il ritiro nel 1993, della Banca mondiale dal progetto del Sardar Sarovar dopo le evidenze della Commissione presieduta da Morse che la stessa Banca aveva nominato nel 1991. I risultati, in sintesi, dicevano che il progetto aveva trascurato gli interessi umani e ambientali per portare avanti imperativi tecnici ed economici..., ma nonostante il ritiro della Banca Mondiale i soldi che mancavano furono messi da uno degli Stati indiani interessati al progetto.

Gli obiettivi dichiarati dal partito delle grandi dighe in India come in altri Paesi sono quelli di portare acqua potabile nelle case, fornire acqua per l’agricoltura e produrre energia elettrica. L’India ha già costruito moltissime dighe (circa 3300 nel periodo 1947-1997) eppure, dati forse da aggiornare, 250 milioni di persone non hanno acqua potabile e 600 milioni non hanno strutture igieniche di base; l’energia elettrica non è ancora arrivata nelle zone rurali. Usi plurimi che entrano in conflitto tra loro ed energia prodotta che è minore di quella che serve per pompare l’acqua nella rete immensa di canali di derivazione. Attualmente, il Madhya Pradesh disperde ogni anno il 44,2% della sua elettricità. Sei volte la produzione dell’invaso Sardar Sarovar.

Quindi le motivazioni ambientali non tengono e non sono avvalorate da risultati. In campo rimane solo la questione dello sviluppo economico andato a vantaggio di pochi (e non certo sostenibile ambientalmente e socialmente). «Come si può misurare il Progresso se non se ne conoscono i costi e non si sa chi ne ha pagate le spese? Come può il mercato stabilire un prezzo per le cose.... dal momento che non tiene in nessun conto il costo reale della produzione?» L’India dal 1950 ha fatto enormi passi avanti, ci racconta l’autrice e ci confermano i dati attuali sugli indicatori economici (crescita del 7-8% annuo), ma è anche vero che una grossa fetta della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà «gli indiani sono troppo poveri per comprare il cibo prodotto dal loro Paese. La gente smette di produrre cose che può permettersi di mangiare e inizia coltivare cose che può solo permettersi di vendere.

Legandosi al “mercato” perdono il controllo delle loro vite». Arundhati Roy amaramente sottolinea «l’India ha fatto progressi, ma la maggior parte dei suoi abitanti no. I nostri capi dicono che dobbiamo avere missili nucleari per proteggerci dalla minaccia della Cina e del Pakistan. Ma chi ci protegge da noi stessi?». L’India intanto con la Cina fa accordi economici e continua ad investire in armamenti (2,4% del pil nel 2006). Anche gli italiani fanno buoni affari (66,3 milioni euro per consegne di armi nel 2006) e gli Stati Uniti, pur essendo l’India un paese che non ha mai firmato il Tnp (trattato di non proliferazione), cioè è tra quei Paesi che non possono essere dotati di armamenti atomici, fanno un accordo per venderle impianti nucleari ad uso civile e combustibile nucleare. Armi e dighe, ci sono certo differenze, ma l’autrice, riesce a trovare omologie nei due saggi che costituiscono il volume: omologie che sostanzialmente riconducono al modello di sviluppo. «Le grandi dighe stanno allo “Sviluppo” di una nazione come le bombe atomiche al suo arsenale militare.

In entrambi i casi si tratta di strumenti di distruzione di massa, usati dal Governo per controllare il suo popolo...rappresentano l’interruzione..., della comprensione fra gli essere umani e il pianeta in cui vivono». I particolari, arricchiti di molti numeri, sulle conseguenze della costruzione delle grandi dighe si trovano nel testo e noi ne abbiamo solo accennato: intimidazioni, documenti secretati, danni ecologici e sociali, promesse non mantenute utili però in campagna elettorale, obiettivi dichiarati mai raggiunti.

Del resto afferma la Roy «nessuno costruisce grandi dighe per fornire acqua potabile ai contadini, perché nessuno può permetterselo». La triste riprova di quanto affermato dall’autrice si sta verificando oggi nel Kurdistan turco con la mega diga di IIlisu sul Tigri: l’acqua per il governo turco in questo caso è elemento strategico per controllare Siria e Iraq e soluzione per il problema curdo dato che se la diga venisse realizzata spazzerebbe via gran parte di quel territorio. La protesta locale e internazionale si sta diffondendo. Alcune banche europee (e anche italiane) stanno ritirando il finanziamento al progetto. Armi, petrolio e ora anche l’acqua come e più di ieri sono gli strumenti per risolvere i “nodi” politici internazionali.

Torna all'archivio